Parlare più di quattro lingue si rivela associato a rischi più bassi di demenza. I risultati di uno studio su centinaia di suore
Una grande abilità nelle lingue, purché realmente parlate, può correlarsi a un ridotto rischio della demenza, e ridotto anche di molto. Una ricerca, condotta all’Università di Waterloo, in Canada, dà indici molto confortanti: tra 325 volontarie che parlavano correntemente e da sempre almeno quattro lingue, solo il 6 per cento ha poi sviluppato una demenza contro il 31 per cento delle donne legate a una sola lingua. Se abbiamo scelto il femminile plurale è perché merita una spiegazione speciale il bacino da cui gli scienziati canadesi hanno attinto i loro dati. Tutte suore, suore cattoliche, già arruolate nel famoso Nun Study, lo Studio delle Suore. Che ha questa storia: è uno straordinario studio longitudinale sull’invecchiamento avviato dall’epidemiologo e neurologo David Snowdon dell’Università del Kentucky (Usa) nel 1986 coinvolgendo 678 suore cattoliche delle School Sisters of Notre Dame dai 75 anni in su. L’idea base era che, conducendo queste religiose lo stesso stile di vita, più significativi potevano essere i confronti fra i risultati degli esami. Sette i conventi coinvolti.
E LE SUORE DONARONO IL CERVELLO
Le suore hanno accettato di sottoporsi a indagini genetiche, a prove di forza fisica e di memoria. Hanno messo a disposizione i loro scritti autobiografici, conservati negli archivi dei conventi, che sui vent’anni, al momento di prendere i voti, erano tenute a comporre. Anche questi testi sono stati sviscerati da tanti punti di vista. Per esempio, quelle che più avevano usato parole come “felice”, “gioia”, “speranza”, “amore”, dunque le ragazze più positive, sono poi risultate più longeve di 10 anni rispetto alle altre. Inoltre le giovani suore che si erano espresse in modo più complesso, articolato, hanno poi avuto meno probabilità di mostrare segni di Alzheimer da vecchie. E non finisce qui: le religiose di Notre Dame hanno anche donato alla scienza i loro cervelli, una volta morte, perché potessero essere sezionati e analizzati.
PIU’ IDEE E MENO DEMENZA
Ricorrendo ancora ai loro dati, la professoressa Suzanne Tyas, responsabile della ricerca, ha osservato: «Il linguaggio richiede un’abilità complessa al cervello umano e saltare da una lingua all’altra comporta una grande flessibilità cognitiva. Sembra di poter dedurre che l’addestramento extra di chi parla tante lingue possa aiutare il cervello a mantenersi in una forma migliore di chi sa una sola lingua». Il gruppo della Tyas è andato a investigare pure sulla lingua scritta prendendo in esame i testi di 106 suore alla ricerca di un indizio di collegamento con la minaccia della demenza. Ed ecco che stavolta il risultato è stato trovato nella ricchezza delle idee, la “densità delle idee”, espresse succintamente nello scritto: le suore autrici di questi lavori si sono dimostrate ancora a minor rischio di demenza che quelle “protette” dal multilinguismo.
DUE O QUATTRO LINGUE?
Stranamente l’équipe di Waterloo, nell’Ontario, afferma che dati anti-demenza non sono stati riscontrati in chi parlava correntemente tre o due lingue. Diciamo “stranamente” in quanto sono molti i lavori, specialmente sul bilinguismo, che dichiarano il contrario. La professoressa Daniela Perani, dell’ospedale e dell’Università San Raffaele di Milano, ha condotto con altri mezzi uno studio su bilingui e demenze e, pubblicandolo due anni fa su Pnas, affermava di avere riscontrato una maggiore “riserva cognitiva” in chi correntemente parlava due idiomi.
LA FORZA PERDUTA DEI DIALETTI
Che cosa si intende per “riserva cognitiva”? «Una maggiore connettività, aumentano i dendriti, migliorano le sinapsi e la comunicazione tra neuroni», risponde oggi la docente di Neuroscienze. «E’ una ricchezza, una forza del cervello, della sua plasticità. E abbiamo la possibilità di migliorare il nostro cervello per tutta la vita». Come bilingui la neurologa Perani ha pensato agli altoatesini, in continuo passaggio tra italiano e tedesco, e li ha scelti tra i già malati di Alzheimer. Non test cognitivi stavolta, ma indagini oggettive con una tecnica di imaging chiamata Fdg-Pet che permette di misurare il metabolismo cerebrale e la connettività funzionale tra diverse strutture del cervello. I soggetti sottoposti all’esame alla testa erano 85, di cui metà che parlavano solo l’italiano e l’altra metà bilingui. «E’ con queste indagine che abbiamo visto la maggiore riserva cognitiva cerebrale nei bilingui -, continua la professoressa Perani. - Inoltre abbiamo constatato che nei bilingui l’Alzheimer è comparso 5 anni dopo gli altri». Daniela Perani è direttrice dell’Unità di neuroimaging molecolare e strutturale in vivo nell’uomo al San Raffaele. Ha usato i suoi mezzi per l’indagine. «Il nostro lavoro è originato da uno studio condotto in un’area dell’India dove tutti i contadini parlavano tre dialetti correntemente e, guarda caso, dove tutti i tipi di demenze comparivano in ritardo rispetto alle età classiche». E a proposito dei dialetti, si rammarica: «Nel secolo scorso sono stati annientati i dialetti. Un vero peccato. La loro persistenza nell’uso quotidiano costituiva un bilinguismo che rendeva più forte il nostro cervello dinanzi agli attacchi delle demenze. Perché poi più le due parlate sono utilizzate e maggiore è il beneficio che si accumula nel cervello».
Serena Zoli
Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.