Individuata una mutazione "protettiva" in un uomo predisposto geneticamente a sviluppare Alzheimer in giovane età. Una caratteristica che servirà a comprendere meglio la malattia e sviluppare nuove terapie
Chi possiede una particolare mutazione nel gene della reelina sembra essere protetto dallo sviluppo dell'Alzheimer. A dimostrarlo uno studio su Nature in cui viene descritto il caso di un uomo -predisposto geneticamente a sviluppare la malattia in giovane età- che all'età di 67 anni e contro ogni previsione nonostante l'accumulo di proteina beta-amiloide, non presenta i sintomi tipici della malattia. Una mutazione capace di "annullare" l'effetto di quella presente nel gene della presenilina-1, responsabile dei casi familiari di Alzheimer. Un risultato importante in ottica di sviluppo di nuovi farmaci.
CHE COS'È LA MALATTIA DI ALZHEIMER?
Nel mondo, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono oltre 55 milioni le persone che convivono con l’Alzheimer, una delle principali cause di disabilità e non autosufficienza tra le persone anziane. Si tratta di una malattia neurodegenerativa a tutti gli effetti. L'Alzheimer causa una perdita progressiva delle cellule nervose e delle loro connessioni. Come avviene per gli altri organi quando sono danneggiati, le lesioni dell’Alzheimer causano una perdita di funzione, cerebrale, nel caso specifico, fino alla demenza. La malattia di Alzheimer, essenzialmente, è causata dalla presenza di ammassi di proteina beta-amiloide che danneggia i neuroni.
QUAL È IL RUOLO DELLA GENETICA?
Tendenzialmente l'Alzheimer non è una malattia genetica ereditaria. Esistono però alcune forme (circa il 10% dei casi di Alzheimer), in particolare quelle ad esordio precoce, dove la componente genetica gioca un ruolo fondamentale. E' questo il caso della mutazione "Paisa", una rara variante genetica del gene della presenilina-1. Per oltre 40 anni il neurologo Francisco Lopera dell'Università di Antioquia di Medellín (Colombia) ha seguito una "famiglia allargata" di 6 mila persone, molte delle quali sviluppavano Alzheimer precocemente prima dei 50 anni. In questi casi è risultato chiaro il collegamento con una mutazione predisponente, quello del gene della presenilina-1, proteina che presente in eccesso causa la formazione di ammassi di proteina beta-amiloide tipici della malattia neurodegenerativa.
UNA MUTAZIONE CHE PROTEGGE
Analizzando il genoma di oltre 1200 persone della famiglia con mutazione "paisa", gli scienziati guidati da Lopera e dall'italiana Claudia Marino della Harvard Medical School di Boston hanno individuato una persona che, nonostante la mutazione predisponente PSEN1-E280A, a 67 anni non aveva ancora sviluppato la malattia. Una vera e propria rarità se si considera che attraverso la risonanza magnetica l'uomo aveva accumuli di proteina beta-amiloide e proteina tau (altra componente tipica dell'Alzheimer) paragonabili a quelli di una persona con Alzheimer. Per contro una piccola area del cervello implicata nella memoria, la corteccia entorinale, è risultata poco danneggiata dalla proteina tau. Andando a "cercare" in maniera approfondita le cause di questa anomalia, gli scienziati hanno individuato nella rara mutazione del gene della reelina il fattore in grado di proteggere dallo sviluppo della malattia. La "prova del nove" è stata realizzata in modello animale: gli scienziati hanno ingegnerizzato dei topi con la mutazione in questione. Dalle analisi è emersa la produzione di una proteina tau incapace di accumularsi a livello dei neuroni impedendo, di fatto, lo sviluppo della malattia. Un risultato importante, che segue quello pubblicato nel 2019 in cui una donna, anch'essa portatrice della doppia mutazione -quella predisponente e quella protettiva-, ha sviluppato una forma di Alzheimer 30 anni dopo rispetto a chi possedeva solo la mutazione "paisa".
CAMBIO DI PARADIGMA?
Quanto raccontato nello studio pone un interrogativo sul meccanismo alla base della malattia di Alzheimer. Il risultato infatti contrasta parzialmente con la teoria che vede nella proteina amiloide il principale indiziato nella genesi della patologia. Il fatto che questa persona, nonostante le numerose placche amiloidi nel suo cervello, non abbia sviluppato la malattia complica la comprensione dei meccanismi che portano ai sintomi. Probabilmente, secondo gli esperti, potrebbero esserci diverse forme di Alzheimer, alcune guidate dall'accumulo di amiloide, altre dalla tau. Non è un caso che ad oggi i principali tentativi di sviluppare farmaci per l'Alzheimer siano finalizzati sia a ridurre l'accumulo di amiloide (qui abbiamo raccontato i recenti progressi) sia l'accumulo di tau.
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Fonti
Daniele Banfi
Giornalista professionista del Magazine di Fondazione Umberto Veronesi dal 2011. Laureato in Biologia presso l'Università Bicocca di Milano - con specializzazione in Genetica conseguita presso l'Università Diderot di Parigi - ha un master in Comunicazione della Scienza ottenuto presso l'Università La Sapienza di Roma. In questi anni ha seguito i principali congressi mondiali di medicina (ASCO, ESMO, EASL, AASLD, CROI, ESC, ADA, EASD, EHA). Tra le tante tematiche approfondite ha raccontato l’avvento dell’immunoterapia quale nuova modalità per la cura del cancro, la nascita dei nuovi antivirali contro il virus dell’epatite C, la rivoluzione dei trattamenti per l’ictus tramite la chirurgia endovascolare e la nascita delle nuove terapie a lunga durata d’azione per HIV. Dal 2020 ha inoltre contribuito al racconto della pandemia Covid-19 approfondendo in particolare l'iter che ha portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA. Collabora con diverse testate nazionali.