Il tumore mammario può colpire anche gli uomini. Ecco perché servono informazioni sulle differenze molecolari tra i sessi per migliorare diagnosi e cura. La ricerca di Valentina Silvestri
Il tumore al seno è uno dei tumori più diffusi in tutto il mondo. Viene considerato una malattia prettamente femminile, ma può svilupparsi sporadicamente anche negli uomini. Il carcinoma della mammella maschile rappresenta solo l’1% di tutti i tumori della mammella, ma è caratterizzato da una mortalità più alta di quello femminile. A causa della rarità dei casi tra gli uomini, quest’ultimi non vengono quasi mai inclusi negli studi clinici: di conseguenza le strategie terapeutiche derivano quasi interamente dalla ricerca sui tumori femminili. Tuttavia è noto che esistono molte differenze nello sviluppo e nella progressione della malattia nei due generi. Per questo motivo occorre approfondire alcuni aspetti del tumore al seno maschile, per orientare i trattamenti verso cure sempre più personalizzate ed efficaci.
Valentina Silvestri è ricercatrice presso il Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università La Sapienza di Roma. Studia le caratteristiche che differenziano uomini e donne nella suscettibilità e nella progressione del tumore mammario. La risposta immunitaria è infatti fondamentale nel determinare l’evoluzione del tumore e l’efficacia di alcuni trattamenti, come l’immunoterapia. Il suo progetto è sostenuto nel 2022 da una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi nell’ambito del progetto Pink is Good.
Valentina, come nasce l'idea del vostro lavoro?
«Da molti anni nel laboratorio in cui lavoro ci occupiamo di un tumore raro, il cancro alla mammella che insorge negli uomini. Questa linea di ricerca ci ha fornito una prospettiva nuova e particolarmente vantaggiosa per indagare le caratteristiche che differenziano uomini e donne nella suscettibilità e nella progressione tumorale in generale. Ultimamente dalle nostre ricerche è emerso un collegamento inaspettato tra il tumore mammario maschile e l’attivazione del sistema immunitario, che ho voluto approfondire nell’ottica delle differenze di genere».
Quali sono gli aspetti poco noti?
«Il presupposto di questo progetto è che alcune caratteristiche specifiche per il genere possono essere rilevanti per la cura del cancro: questo è un ambito di ricerca ancora poco esplorato. Per esempio, il diverso comportamento del sistema immunitario tra uomini e donne può risultare in una differente efficacia delle terapie oncologiche nei due sessi, tra cui l’immunoterapia. Lo scopo di questo progetto è di scoprire quali siano le caratteristiche molecolari, legate al genere, che guidano l’attivazione della risposta immunitaria verso il tumore mammario in uomini e donne, in modo da indirizzare i pazienti di entrambi i sessi alla terapia più adeguata».
Come intendete portare avanti il vostro progetto durante quest’anno?
«Analizzeremo il DNA di donne e uomini che hanno sviluppato un tumore mammario, attraverso tecniche di laboratorio di ultima generazione. Studieremo anche l’RNA del tumore stesso, in modo da identificare dei marcatori biologici legati al genere. Valuteremo quindi il legame di questi tratti con le caratteristiche cliniche del tumore e con la risposta del paziente all’immunoterapia e ad altre terapie personalizzate».
Quali sono le prospettive a lungo termine?
«Mi aspetto che questo studio possa essere un modello da estendere ad altri tumori, per iniziare a considerare tutti i tipi di cancro in una prospettiva di genere. In questo modo potremo migliorare l’appropriatezza e la personalizzazione della gestione clinica dei pazienti di entrambi i sessi, rispondendo alle sempre più attuali richieste di una medicina di precisione».
Sei mai stata all’estero per un’esperienza di ricerca?
«Sono stata all’estero per una breve esperienza di ricerca durata nell’estate del 2014, all’Università di Cambridge nel Regno Unito. Avevamo iniziato una collaborazione a distanza, che oggi è ancora in corso, e quel soggiorno ha velocizzato e concretizzato uno studio che stavo svolgendo in quel momento. Abbiamo altri collaboratori internazionali con cui ci confrontiamo spesso: ho quindi la possibilità di essere a contatto con moltissimi ricercatori stranieri, pur lavorando in Italia. Tuttavia non escludo di passare periodi all’estero più lunghi, probabilmente quando i miei bambini saranno più grandi».
Valentina, ricordi il momento in cui hai capito che la tua strada era quella della scienza?
«Sì, è stato quando avevo 14 anni. Mio nonno si è ammalato di un cancro incurabile e in pochi mesi purtroppo è morto. Questo evento drammatico ha suscitato in me la voglia di comprenderne le cause, di capire il perché le persone si ammalano di tumore e di capire come evitarlo. Da subito l’interesse per la ricerca è stato in ambito oncologico. Anche nei momenti di indecisione e dubbio questa aspirazione ha sempre prevalso e da quando sono in “cammino” sulla strada della ricerca, ripensare a quell’evento riaccende in me la motivazione per continuare».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«Mi piace la libertà e l’imprevedibilità. Adoro ottenere risultati inaspettati che ci spingono a porci ulteriori domande e a uscire dagli schemi».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«Purtroppo in Italia fare ricerca è un lavoro molto precario, per cui eviterei le preoccupazioni legate a questo aspetto».
C’è una figura che ti ha ispirato nella tua professionale?
«Sono sempre stata affascinata dalla figura di Rita Levi-Montalcini. La sua estrema dedizione alla ricerca scientifica è una fonte di grande ispirazione».
Cosa avresti fatto se non avessi fatto la ricercatrice?
«Al liceo ero molto appassionata di storia dell’arte, probabilmente avrei scelto una professione in quell’ambito».
Al di là dei contenuti scientifici, qual è per te il senso che dà un significato profondo alle tue giornate lavorative?
«Per me il senso del fare ricerca risiede nel pensare alla differenza che il nostro lavoro può fare nella società. Nonostante lavori in laboratorio e non a stretto contatto con i pazienti, pensare alle persone che attualmente lottano contro un tumore, insieme ai loro familiari e ai medici, mi carica di un grande senso di responsabilità e mi fa trovare un profondo significato nel lavoro di ogni giorno».
In cosa, secondo te, può migliorare la scienza e la comunità scientifica?
«Secondo me la comunità scientifica dovrebbe migliorare nella comunicazione e divulgazione della scienza. In questo potremmo essere sicuramente aiutati da giornalisti e da esperti in comunicazione».
Pensi che ci sia un sentimento antiscientifico in Italia?
«Non nego che a volte l’ho percepito, ma più spesso, parlando con le persone, ho capito che c’è una grande curiosità intorno alla figura del ricercatore. È un interesse che dovremmo cercare di soddisfare».
Cosa fai nel tempo libero?
«Nel tempo libero preferisco dedicarmi alla lettura o alle serie tv (al momento quelle coreane). Inoltre fin da ragazza faccio volontariato in parrocchia, prima in oratorio con i bambini, ora seguendo i gruppi delle famiglie».
Hai famiglia?
«Ho un marito, una figlia di sette anni e un figlio di quattro».
Se un giorno uno dei tuoi figli ti dicesse che vuole fare ricerca, come reagiresti?
«Sarei felice per lei o per lui, se è quello che vuole realmente fare, perché è un lavoro bellissimo.
Quando è stata l’ultima volta che ti sei commossa?
«Mi commuovo sempre vedendo i cartoni animati con i miei bambini!»
La cosa di cui hai più paura?
«La malattia e in generale la sofferenza dei miei cari».
Sei soddisfatta della tua vita?
«Sì, molto».
Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?
«Vorrei ringraziarli perché ci permettono di continuare il nostro lavoro. Oltre ad essere ricercatrice sono anche una donatrice, perché credo fermamente che sostenere la ricerca voglia dire realizzare un futuro migliore per tutti!»
Sostieni la ricerca, sostieni la vita. Dona ora per la ricerca contro i tumori femminili