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Emanuela Pasi
pubblicato il 14-10-2024

Trombosi nei tumori ginecologici: è possibile prevederle?



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Le pazienti con tumori ginecologici mostrano un diverso rischio di sviluppare trombi. Uno studio vuole capirne i motivi per personalizzare cure e prevenzione. La ricerca di Paolo Santini

Trombosi nei tumori ginecologici: è possibile prevederle?

La trombosi è la formazione di un coagulo di sangue (trombo) in una vena o in un'arteria che blocca il flusso di sangue attraverso il sistema circolatorio. Se un coagulo di sangue si stacca dalla parete del vaso può portare a conseguenze pericolose per la vita, come embolia polmonare o ictus. Questi eventi sono tra le complicazioni più insidiose per le pazienti oncologiche, perché possono compromettere la qualità della vita e ritardare i trattamenti. Grazie alla ricerca, tuttavia, si aprono nuove strade per predirli e prevenirli.

Paolo Santini è ricercatore presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma, dove prova a identificare precocemente le pazienti più a rischio all’interno dello studio GynCAT. Ne parliamo in occasione della recente Giornata Mondiale della Trombosi. Il suo lavoro sarà sostenuto per il 2024 grazie a una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi nell’ambito dei tumori al femminile.

Paolo, cosa vi ha spinto a lavorare su questo tema?

«Nella pratica clinica quotidiana ci occupiamo di pazienti con tumori ginecologici che spesso presentato episodi di trombosi venosa profonda o embolia polmonare come complicanza della patologia oncologica. Durante il trattamento di queste pazienti ci siamo resi conto che gli attuali strumenti di valutazione del rischio di trombosi siano stati pensati per una popolazione oncologica generale, che non sempre corrisponde alle pazienti che incontriamo. Da qui è nata l’idea dello studio GynCAT, che ha lo scopo di sviluppare uno nuovo strumento di predizione del rischio di trombosi specifico per queste pazienti».

Perché è importante trovare nuovi strumenti di predizione?

«Gli attuali modelli di rischio non considerano le variabili che esistono tra i diversi tipi di neoplasie ginecologiche, come la localizzazione del tumore, il tipo e i trattamenti. Noi vogliamo personalizzare la prevenzione delle trombosi venose in queste pazienti, attraverso lo sviluppo di un modello basato sul loro rischio specifico. Includendo queste informazioni, riteniamo di poter predire il rischio di trombosi con maggiore precisione e offrire soluzioni terapeutiche più personalizzate. Così sarà possibile capire in anticipo chi potrà beneficiare di una terapia anticoagulante preventiva, migliorando la possibilità di cura».

Come si svilupperà il progetto nel corso di quest’anno?

«Per ciascuna delle pazienti affette da tumori della sfera femminile, arruolate all’interno dello studio GynCAT, verranno studiate le caratteristiche cliniche, genetiche e di laboratorio, come il tipo di tumore, la terapia antitumorale in corso e la presenza di alcune mutazioni, per vedere quali caratteristiche sono correlate allo sviluppo di una trombosi. Queste pazienti verranno seguite per un anno, per rilevare la presenza di un episodio trombotico e individuare i principali fattori di rischio».

Che vantaggi porterà a queste pazienti?

«Se riusciremo a sviluppare un modello predittivo efficace per le pazienti con tumori ginecologici, potremo migliorare significativamente le strategie preventive, e allo stesso tempo arricchire la nostra conoscenza delle relazioni tra cancro e trombosi. Questo permetterà di personalizzare ancora di più le cure, riducendo i rischi per le pazienti e aumentando l’efficacia dei trattamenti».

Paolo, hai mai avuto occasione di lavorare all’estero?

«No. Sarebbe interessante fare un periodo di ricerca in un centro internazionale specializzato in trombosi associata al cancro. Mi piacerebbe inoltre poter validare i risultati dello studio GynCAT in uno studio multicentrico (cioè uno studio condotto con le stesse modalità, in parallelo, ma in differenti centri di ricerca, ospedali o università, N.d.R.). Questa sarebbe una grande occasione di crescita e di approfondimento sugli strumenti di predizione del rischio, sempre più utilizzati nella pratica clinica quotidiana».

Cosa ti ha spinto a scegliere la strada della ricerca?

«Il lavoro del medico ci pone fronte a scelte che spesso non hanno una risposta semplice. La ricerca clinica, invece, è un modo con cui riesco ad affrontare costruttivamente questa l’incertezza. I dubbi mi spronano a immaginarmi sempre nuove domande che un giorno porteranno a migliorare l’assistenza ai pazienti. Fare ricerca è quello che mi stimola ad aggiornare continuamente le conoscenze e a guardare ogni singolo caso clinico con curiosità e passione. Il mio obiettivo è quello di fornire ad ogni singolo o singola paziente il miglior trattamento possibile al meglio delle possibilità che la scienza fornisce».

Ci hai incuriosito: ti senti più medico o più ricercatore?

«Quando mi chiedono che lavoro faccio rispondo che sono un medico di Medicina Interna e che mi occupo di ricerca clinica. Come medico di medicina interna, mi occupo del paziente nella sua interezza, tenendo conto della sua complessità che coinvolge sempre tutto l’organismo e non solamente un singolo organo. Quando faccio ricerca clinica, invece, cerco di trasmettere come questo consista nel lavorare in maniera rigorosa, metodica e standardizzata, così da poter affiancare al lavoro di cura la registrazione di dati che ci permetteranno di svolgere al meglio l’attività clinica sui pazienti e le pazienti che trattiamo. Entrambi gli aspetti sono importanti».

A volte ti senti incompreso nel tuo lavoro?

«Nella mia attività quotidiana in ospedale ho la fortuna di percepire una profonda fiducia nell’attività medica e nella ricerca scientifica. Questo si affianca spesso a un senso di gratitudine dei pazienti assistiti nei confronti di medici e ricercatori. Purtroppo, questa realtà così positiva che percepisco all’interno dell’ospedale è in contrasto con quello che spesso emerge a livello politico e mediatico».

Paolo, ci raccontavi che non smetti “di fare il medico” nemmeno dopo il lavoro.

«No, infatti. Da diversi anni, sono impegnato come medico volontario per Medici per i Diritti Umani nel progetto Un camper per i diritti. Questo progetto si occupa di raggiungere, con un’unità mobile, gli ‘insediamenti informali’ di Roma, come baraccopoli, edifici occupati o stazioni, per offrire cure mediche di base e fornire informazioni su come accedere ai servizi sociosanitari territoriali».

Pensi sia importante finanziare la ricerca scientifica?

«Il finanziamento pubblico della ricerca scientifica è a oggi, purtroppo, largamente insufficiente. In Italia il percorso di un ricercatore è caratterizzato da un inevitabile periodo di precarietà che non consente, spesso, lo sviluppo di progetti di ricerca indipendenti. Il sostegno alla ricerca scientifica consente di promuovere l’attività di ricercatori e ricercatrici, liberi da condizionamenti, per lo sviluppo di progetti che possono migliorare le conoscenze mediche».

Vuoi dire qualcosa ai nostri donatori e sostenitori?

«Ringrazio tutti coloro che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica, per la possibilità che offrono a ricercatori e ricercatrici di continuare a lavorare su progetti in cui credono per il miglioramento della salute dei propri e delle proprie pazienti».

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