Chiara Magliaro sviluppa in vitro modelli tridimensionali di cervello e intestino per studiare la loro relazione nell’insorgenza della malattia di Parkinson
Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa che colpisce i neuroni del mesencefalo, implicati nel controllo dei movimenti: ne sono affetti circa seicentomila persone solo in Italia. I neuroni dei pazienti perdono la capacità di produrre il neurotrasmettitore dopamina, coinvolto nella regolazione fine del movimento, e questo impedisce la corretta trasmissione del segnale nervoso: da qui, il caratteristico tremore. Non sono ancora chiare le cause che innescano questa degenerazione; questo, insieme alla difficoltà di individuare sintomi nei primi stadi della malattia, rende la diagnosi tardiva. Ci sono fattori genetici e ambientali che concorrono all’insorgere della malattia; recenti studi dimostrano che persino l’alterazione del microbioma - i batteri che popolano l’intestino - sia legato all'innesco della malattia, ma non è chiaro in che modo. È questo l’oggetto di ricerca di Chiara Magliaro, ricercatrice post-dottorato presso il Centro di Ricerca «Enrico Piaggio», all’avanguardia per la ricerca in bioingegneria e robotica.
Chiara, ci racconti nei dettagli di cosa ti occupi?
«Lo scopo del mio lavoro è mettere a punto modelli cellulari tridimensionali per lo studio delle relazioni tra intestino e mesencefalo nello sviluppo del Parkinson. L’obiettivo è ricreare in vitro strutture 3D che siano un buon modello di intestino e cervello, partendo da cellule staminali generate artificialmente a partire da cellule adulte di pazienti: i cosidetti organoidi. Utilizziamo per la loro crescita speciali bioreattori sviluppati presso il centro in cui lavoro».
Qual è il vantaggio di utilizzare il sistema degli organoidi?
«A oggi, non esiste un modello animale scientificamente accettato del Parkinson, e non è possibile studiare gli effetti della comunicazione tra cervello e intestino con le classiche colture cellulari. Il mio progetto vuole integrare biologia cellulare, biotecnologia e ingegneria per cercare una valida alternativa che possa affiancare e, a lungo termine, magari sostituire la sperimentazione animale per lo studio di questa specifica malattia».
Quali prospettive apre per le future possibili applicazioni alla cure dei pazienti?
«Avere un modello cellulare accurato ci permetterà di capire cosa succede nell’intestino e come le sue alterazioni viaggiano poi fino al cervello per anticipare la diagnosi ed eventualmente aiutare a scegliere la migliore strategia terapeutica per ogni paziente».
Quando hai capito che la tua strada era quella della scienza?
«Sono sempre stata affascinata dal cervello e dal suo funzionamento. A 23 anni lessi “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” e ho capito che volevo aiutare a decifrare la scatola nera della nostra mente».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Una ricercatrice stimata a capo di un gruppo tutto mio di neuroimaging e neuroinformatica».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«Gli stimoli, l’idea di una conoscenza aperta e accessibile, studiare per amore di conoscenza, il confronto continuo con altri ricercatori».
E cosa eviteresti volentieri?
La filosofia del publish or perish per la pubblicazione dei propri risultati: la corsa alla pubblicazione a ogni costo rischia di penalizzare la ricerca di qualità».
Quali saranno a tuo parere gli ambiti di ricerca più promettenti dei prossimi cinquant’anni?
«Punto tutto sulle neuroscienze. C’è ancora tantissimo da scoprire sul funzionamento del cervello e sulle malattie neurodegenerative e dello sviluppo. Sono sicura che, con gli opportuni finanziamenti impareremo ancora tantissimo su “quel chilo e mezzo di materia tre le nostre orecchie”, come lo ha descritto Obama lanciando il progetto Brain».
Qual è il libro che più ti rappresenta?
«Nulla di più grande di Marcello Massimini e Giulio Tononi. È un libro divulgativo sulla coscienza umana e sul tentativo di darle una definizione e misurarla».
Qual è il senso profondo che ti spinge a fare ricerca ogni giorno?
«Siamo gli unici animali curiosi che si interrogano sul perché delle cose. La ricerca genera entusiasmo e voglia di vedere “come va a finire”, ed è questo che mi spinge ad alzarmi dal letto e andare a lavoro».
Chiara Segré
Chiara Segré è biologa e dottore di ricerca in oncologia molecolare, con un master in giornalismo e comunicazione della scienza. Ha lavorato otto anni nella ricerca sul cancro e dal 2010 si occupa di divulgazione scientifica. Attualmente è Responsabile della Supervisione Scientifica della Fondazione Umberto Veronesi, oltre che scrittrice di libri per bambini e ragazzi.