La trombospondina-1 regola la “manutenzione” dell’osso e potrebbe essere utile per identificare nuovi bersagli terapeutici contro le metastasi ossee, derivanti soprattutto dal tumore al seno. La ricerca di Laura Carminati
Le metastasi ossee sono eventi frequenti che si verificano in diversi tumori, specialmente nei tumori al seno, e rappresentano una sfida clinica ancora aperta. Normalmente l’osso è soggetto a un costante processo di rimodellamento, che coinvolge la rimozione di vecchio tessuto da parte di cellule specializzate – gli osteoclasti – e la deposizione di nuovo tessuto osseo di altre cellule chiamate osteoblasti. Questo processo di rimodellamento viene alterato durante l’invasione delle cellule tumorali e diventa quindi importate studiare meccanismi che regolano l’interazione tra il tumore e il microambiente osseo che lo circonda.
Laura Carminati è ricercatrice presso l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, dove studia il ruolo di una proteina, la trombospondina-1, nelle metastasi ossee osteolitiche. Queste lesioni presentano una eccessiva attivazione degli osteoclasti, con danno osseo. Il suo progetto potrebbe contribuire a individuare nuovi bersagli terapeutici contro le metastasi e sarà sostenuto per il 2024 da una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi nell’ambito dei tumori al femminile.
Come nasce l’idea del vostro lavoro?
«Il nostro laboratorio studia da anni il microambiente tumorale, ovvero l’ambiente che circonda le cellule tumorali ed è costituito da molte molecole, fattori di crescita, cellule non tumorali e dalla matrice extracellulare, l’ambiente in cui sono immersi. Questo insieme di strutture, cellule e molecole sostiene la crescita del tumore stesso e ha un ruolo anche nell’insorgenza delle metastasi. Ora sto studiando il ruolo di una proteina, la trombospondina-1 (TSP-1), che regola diverse componenti del microambiente tumorale in un particolare tipo di metastasi, le metastasi ossee osteolitiche. Grazie alla sua struttura, questa proteina è infatti capace di interagire con diversi fattori e molecole».
Perché avete scelto questa linea di ricerca?
«Questo particolare tipo di metastasi ossee, derivanti soprattutto dal tumore al seno, è caratterizzato da un’eccessiva attivazione degli osteoclasti, le cellule deputate alla degradazione della matrice ossea, con conseguenti lesioni ossee associate alla crescita dei nuovi tumori. A oggi, per questo tipo di metastasi, i trattamenti terapeutici hanno per lo più uno scopo palliativo, al fine di migliorare la qualità di vita dei pazienti».
Quali sono gli aspetti poco noti da approfondire?
«È fondamentale comprendere i meccanismi di regolazione del microambiente tumorale osseo, per identificare nuovi possibili bersagli terapeutici. Lo scopo principale del mio progetto è quello di studiare i meccanismi con cui la trombospondina-1 regola l’attività degli osteoclasti e di altre componenti del microambiente osseo, con l’obiettivo di sviluppare nuovi composti per il trattamento delle metastasi ossee osteolitiche».
Quali sono le prospettive per la ricerca e la salute umana?
«Occorre pensare che le metastasi ossee sono una complicanza molto frequente in diversi tipi di tumore, soprattutto nel cancro alla prostata e in quello al seno: peggiorano notevolmente la prognosi e la qualità di vita dei pazienti a causa di eventi avversi quali lesioni ossee, fratture e ipercalcemia. L’interazione delle cellule tumorali che arrivano all’osso con le cellule residenti altera il normale mantenimento del tessuto osseo. Studiare come viene regolata tale interazione tumore-microambiente osseo rimane ancora oggi una sfida importante, perché potrebbe permettere di identificare nuovi bersagli terapeutici per questo tipo di metastasi».
Laura, sei mai stata all’estero per un’esperienza di ricerca?
«Non ho mai fatto una vera e propria esperienza all’estero, ma ho avuto la fortuna di partecipare a diversi congressi internazionali. A settembre 2023 sono stata negli USA per partecipare a un importante congresso al Cold Spring Harbor Laboratory, dove hanno lavorato ben otto ricercatori premi Nobel. Vivere una settimana nel loro campus, incontrare e confrontarsi con ricercatori da tutto il mondo e soprattutto l’abbondanza di conoscenze che ho potuto portare nel mio laboratorio ha reso quell’esperienza incredibile».
Quando hai scelto di diventare ricercatrice?
«Ho sviluppato un interesse per le materie scientifiche sin da piccola, a scuola. La strada della ricerca non era il “sogno da bambina”, ma è stata una decisione maturata nel corso del mio percorso universitario, soprattutto quando ho cominciato a lavorare in laboratorio per la mia tesi di laurea».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Vorrei poter conciliare la mia passione per la ricerca con quella per l’insegnamento».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«La continua scoperta, il fatto che c’è sempre qualcosa di nuovo da studiare e approfondire. È un lavoro dinamico con alcune routine, ma che porta sempre a imparare e fare cose nuove».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«La precarietà e l’incertezza. Avendo anche una famiglia, è un aspetto importante da tenere in considerazione nelle scelte lavorative».
Come rispondi quando ti chiedono che lavoro fai?
«Rispondo che sono una ricercatrice in campo oncologico. Dalla mia risposta poi iniziano sempre domande del tipo “Ma cosa fate di preciso?”, “Ah, ma quindi sei una scienziata?”, oppure “Lavori con gli animali?”. In effetti, penso che non sia immediato immaginarsi com’è una giornata “tipo” di un ricercatore e soprattutto capire cosa significa cercare idee e studiarle nel concreto».
Cosa avresti fatto se non avessi fatto la ricercatrice?
«Sicuramente l’insegnante. Adoro insegnare e mi piacerebbe un giorno poter affiancare la ricerca con l’insegnamento».
Al di là dei contenuti scientifici, qual è per te il senso profondo che ti spinge a fare ricerca?
«Fare ricerca è diverso dalla classica concezione di lavoro che molti hanno. Nel nostro ambito spesso non si raggiungono subito dei risultati concreti e la possibilità del “fallimento” è dietro l’angolo. Il senso di fare ricerca è proprio continuare nel processo di scoperta, cercare di aggiungere nuovi tasselli a quelli già presenti. Questi sforzi individuali potrebbero non portare a un risultato immediato per il singolo ricercatore, ma combinati con i dati provenienti da altri gruppi di ricerca, possono completare il quadro e contribuire al progresso scientifico complessivo».
In cosa, secondo te, possono migliorare la scienza e la comunità scientifica?
«Credo che manchi, in diversi ambiti, il giusto riconoscimento del ruolo fondamentale della ricerca. Come dicevo, il processo scientifico potrebbe non dare risultati immediati e questo disincentiva gli investimenti. Maggiori investimenti, non solo economici, potrebbero aiutare notevolmente il lavoro di chi fa scienza».
Hai famiglia?
«Sì, sono sposata e ho un bimbo di due anni. Ho anche un pastore maremmano, che occupa un posto non indifferente in famiglia!»
Cosa fai nel tempo libero?
«Sono sempre stata sportiva, ma l’essere diventata mamma ha notevolmente stravolto le mie abitudini. Cerco di ritagliarmi più momenti possibili con mio figlio, dato che lavoro tutto il giorno. Il mio tempo libero ormai ha un solo fine: la famiglia».
Se un giorno tuo figlio ti dicesse che vuole fare il ricercatore, come reagiresti?
«I miei genitori mi hanno lasciato la libertà di studiare ciò che mi piaceva e così farò anche io con mio figlio. Gli spiegherei ovviamente i pro e i contro di questo lavoro e se lui volesse davvero fare il ricercatore, lo appoggerei, ricordandogli che deve essere guidato dall’entusiasmo e dalla voglia costante di imparare».
C’è una figura che ti ha ispirato nella tua vita personale o professionale?
«Senza dubbio, i miei genitori».
Qual è l’insegnamento più importante che ti hanno lasciato?
«Sono i sani valori che guidano tutt’oggi la mia vita e che sto cercando ora di trasmettere a mio figlio».
C’è una cosa che vorresti assolutamente vedere almeno una volta nella vita?
«Prima o poi voglio vedere l’aurora boreale».
Qual è la cosa di cui hai più paura?
«Perdere le persone care. Ho toccato con mano questa paura quando mio padre si era malato gravemente di Covid. In quei giorni immaginavo la mia vita futura senza di lui e non accettavo l’idea di non poter condividere con lui ciò che doveva ancora accadere».
E quella che ti fa ridere a crepapelle?
«Mio figlio che dice le prime parole a modo suo».
Sei soddisfatta della tua vita?
«Sono un’eterna perfezionista e tendo sempre a non essere pienamente soddisfatta, in ogni ambito. Ma sì, sono molto felice della mia vita».
Hai un ricordo a te caro di quando eri bambina?
«La colazione con una tazza di caffè d’orzo a casa dei miei nonni. Ancora oggi bevo una tazza d’orzo tutte le mattine».
Una “pazzia” che hai fatto?
«L’esame per l’ammissione al dottorato di ricerca fatto il giorno prima di sposarmi può essere considerata tale? »
Perché è importante donare a sostegno della ricerca scientifica?
«La ricerca va avanti soprattutto grazie al sostegno dei donatori. Fare ricerca ha diversi costi, non solo per pagare chi la fa, ma anche perché i reagenti e le strumentazioni che utilizziamo hanno costi elevati. E spesso il “prodotto” del nostro lavoro non porta a un guadagno a livello economico diretto, perché il fine ultimo è appunto la conoscenza. Pertanto, i fondi che arrivano attraverso le donazioni sono il sostegno economico principale per vari progetti di ricerca».
Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?
«Voglio dire semplicemente grazie per il sostegno, ma anche perché ci trasmettono la loro fiducia, che non è una cosa scontata. Spesso ciò che spinge a donare è aver vissuto di persona certe situazioni: a queste persone rivolgo un ringraziamento ancora più sentito».