Capire se le alterazioni nella sintesi di questi organelli, deputati alla produzione delle proteine nelle nostre cellule, sia alla base del tumore alla mammella: questo l’obiettivo di Marianna Penzo
In Italia, ogni ora di ogni giorno vengono scoperti 5 nuovi casi di tumore al seno: si tratta del tumore più frequente nelle donne. Oggi però, grazie agli avanzamenti medico-scientifici e la diagnosi precoce, la percentuale di guarigione è salita fino all’87%.
Nonostante questi sviluppi, esistono ancora forme di tumore al seno per cui le opzioni terapeutiche sono limitate: ecco perché è importante che la ricerca non si fermi. Nel tumore alla mammella sono state individuate alterazioni nella produzione dei ribosomi, gli organelli cellulari che sintetizzano le proteine seguendo le istruzioni codificate dal Dna e trasmesse dall’Rna. Recenti studi indicano che cambiamenti osservati nel tumore al seno nei livelli di fibrillarina e discherina, fattori coinvolti nella sintesi dei ribosomi, siano collegati a una produzione aberrante di oncoproteine (che favoriscono lo sviluppo del tumore) e proteine antitumorali (che contrastano l’originarsi del tumore), determinando uno sbilanciamento che contribuisce allo sviluppo del cancro.
Tutto questo è al centro del progetto di ricerca di Marianna Penzo (nella foto), biotecnologa mantovana che grazie al progetto Pink is Good della Fondazione Umberto Veronesi porta avanti un progetto presso il Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale (Dimes) dell’Università di Bologna.
Marianna, ci racconti di cosa ti occupi?
«Lo scopo della mia attività è verificare se le alterazioni osservate a carico dei ribosomi siano davvero cruciali per lo sviluppo del tumore al seno, e in che modo influiscano nel processo. Per questo utilizzerò cellule di mammella, normali o tumorali, ingegnerizzate per alterare i livelli di discherina o fibrillarina, al pari di ciò che avviene nei tumori delle pazienti.
I ribosomi purificati da queste cellule verranno studiati per quanto riguarda la loro composizione e il loro funzionamento. In questo modo si identificheranno alcune delle proteine che risultano essere prodotte in maniera alterata, che potranno essere studiate in futuro come bersagli molecolari utili sia a fini terapeutici sia a fini diagnostici per il tumore della mammella».
Quali possibili applicazioni per la salute umana avrà il tuo progetto, anche a lungo termine?
«Se il progetto porterà ai risultati sperati, in futuro potrà permettere di identificare nuovi target molecolari utili sia a fini terapeutici sia a fini diagnostici per il tumore della mammella».
Sei mai stata all’estero a fare un’esperienza di ricerca? Se sì, cosa ti ha spinto ad andare?
«Tra il 2005 e il 2006 mi sono recata per diversi periodi a Stony Brook (Long Island, Stati Uniti, ndr). Volevo fare un esperienza nuova, confrontarmi con una realtà lavorativa di un livello superiore e con una realtà di vita totalmente diversa dalla mia».
Cosa ti ha lasciato questa esperienza? Ti è mancata l’Italia?
«Il nostro Paese mi è molto mancato, in particolare i miei affetti: ero appena andata a convivere e non è stato facile partire. Ma sono contenta di essere andata: ho avuto modo di capire quanto il nostro sistema di istruzione sia migliore rispetto ad altri (quello americano in particolare). Di quanto qui in generale si lavori meglio, ma con molte meno risorse».
Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca? Ricordi l’episodio o il momento in cui hai capito che la tua strada era quella della scienza?
«È curioso: non mi viene proprio in mente come io abbia deciso che questa sarebbe stata la mia strada. Se guardo indietro ora, è come se l’avessi sempre saputo. Mi ricordo benissimo che già alle scuole medie, quando mi chiedevano cosa avrei voluto fare da grande, rispondevo “ingegneria genetica”! Credo che ai tempi con questo termine intendessi la manipolazione del Dna per ricerca, una delle cose che ancor oggi mi piace di più fare».
Cosa avresti fatto se non avessi fatto il ricercatore?
«Probabilmente la commessa in un negozio di scarpe! Al primo anno di università, dopo un mese da fuorisede a Modena, chiamai mia madre e le dissi: “mamma, io non ce la faccio! Torno a casa e vado a fare la commessa in un negozio di scarpe!” Per fortuna mi ha convinto a cambiare idea… Grazie mamma!».
Hai famiglia?
«Sì, un marito e tre meravigliosi bambini: Giulia di quasi 5 anni, e Luca e Simone, gemelli di 2 anni».
Se un giorno uno dei tuoi figli ti dicesse che vuole fare il ricercatore, come reagiresti?
«Spero che quando saranno grandi avrò il buon senso e il coraggio di lasciarli compiere le loro scelte in autonomia. Ciò detto, spero di cuore che cambi il nostro paese: che diventi un posto in cui la ricerca viene considerata una delle priorità in cui investire, un lavoro nobile, ben retribuito e con prospettive concrete. E se queste mie speranze fossero vane… spero comunque che i miei figli seguano le loro passioni, come ho fatto io».
Pensi che la scienza e le ricerca abbiano dei lati oscuri? Come pensi che debbano essere affrontati?
«La scienza ha sicuramente dei lati oscuri: uno di questi è senz’altro legato al fatto che, volenti o nolenti, anche la scienza è un business. Questo perché le ricerche condotte vengono pubblicate su riviste scientifiche: senza pubblicazioni è praticamente impossibile ricevere finanziamenti, con i quali non si pagano solo i costi di supporto della ricerca ma anche gli stipendi di chi ci lavora. E se i dati non arrivano? O non sono buoni? Sicuramente c’è chi li falsifica per pubblicare. Vari casi in passato sono venuti a galla e hanno causato grandi scandali nella comunità scientifica. D’altro canto ci sono poi nomi di fama mondiale, leader indiscussi in questo o l’altro settore di ricerca, che pubblicano spesso unicamente in virtù del loro nome».
Cosa pensi delle persone contrarie alla scienza per motivi ideologici, come gli antivaccinisti o i contestatori della sperimentazione animale?
«Ci penso spesso ai cosiddetti “animalisti”: oggi ancor più di un tempo, visto che oggi in Italia abbiamo una legge sulla sperimentazione animale così restrittiva che è diventato davvero difficile ottenere i permessi. Credo che ognuno sia libero di avere le proprie idee, ma vorrei che passasse il messaggio che chi fa sperimentazione sugli animali non è certo un sadico. Ho conosciuto moltissime persone nella mia carriera che hanno lavorato in vivo: nessuna di queste lo ha mai fatto a cuor leggero, o senza rispettare le regole. Gli animali sono comunque sempre rispettati, si fa di tutto perché non provino dolore. Credo che per contrastare certe ideologie antiscientifiche bisognerebbe paradossalmente far comprendere cosa significa vivere senza i progressi a cui il sacrificio degli animali ha portato. Niente vaccini, niente medicine, niente strumenti diagnostici. Forse cambierebbero idea? Mah».
Il film che più ti piace o ti rappresenta.
«“La vita è bella”: un film straordinario, ricco di emozioni e con un fortissimo messaggio positivo».
Con quale personaggio famoso ti piacerebbe andare a cena una sera? Cosa gli chiederesti?
«Ecco una domanda trabocchetto: ora ci si aspetterà che io dica un qualche premio Nobel, un luminare di ieri o di oggi. Ma anche le donne di scienza sono pur sempre donne, no? E allora risponderò sinceramente: vorrei passare una sera a cena con Brad Pitt. E cos’altro gli dovrei chiedere se non “cosa fai dopo cena?”».
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