La ricerca di biomarcatori è fondamentale per la cura e la prevenzione dei tumori e potrebbe essere implementata in un unico test diagnostico: ce lo racconta Gianmaria Frigè, ricercatore sostenuto da Fondazione Umberto Veronesi
Oggi sono disponibili molte informazioni sulle alterazioni genetiche più comuni nelle forme tumorali e la ricerca di questi biomarcatori è ormai parte integrante del percorso diagnostico. I recenti progressi delle tecnologie di sequenziamento del DNA danno la possibilità di caratterizzare rapidamente i tumori dal punto di vista molecolare, aprendo la strada alla cosiddetta medicina di precisione. Con essa, i trattamenti individuali sono scelti sulla base delle caratteristiche specifiche di ogni tumore e di ogni paziente.
La caratterizzazione molecolare prevede la ricerca sia delle alterazioni genetiche che aiutano a predire la sensibilità o la resistenza alle terapie, sia delle varianti ereditarie legate al rischio di insorgenza e progressione della malattia. Gianmaria Frigè è oggi ricercatore presso l’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, dove studia la possibilità di combinare in un unico flusso diagnostico la caratterizzazione molecolare completa del tumore. Vincitore di una borsa di ricerca nel 2019 e nel 2020, oggi continua a lavorare a una carta d’identità generica per i tumori anche grazie al sostegno passato di Fondazione Umberto Veronesi. In questa intervista ci ha raccontato molto del suo lavoro degli ultimi anni.
Gianmaria, ben ritrovato! È passato qualche tempo dalla tua ultima intervista: hai voglia di provare a raccontarci il tuo lavoro passato e presente?
«Ciao! Mi occupo della cosiddetta identificazione di biomarcatori, uno degli aspetti centrali della medicina personalizzata. La presenza o meno di certi tratti è importante per la previsione del rischio di malattia, la diagnosi precoce, la selezione del trattamento e il monitoraggio degli effetti delle terapie. I marcatori possono essere distinti principalmente in due gruppi: le “varianti ereditarie” e le “mutazioni somatiche”. Le “varianti ereditarie” sono geni che predispongono all’insorgenza del cancro e sono noti in particolare per i tumori del colon, dell’ovaio e della mammella. La loro ricerca è importante perché permette di attuare programmi di sorveglianza diagnostica nei pazienti e nelle loro famiglie. Le “mutazioni somatiche” si riferiscono invece a tratti che - se alterati - possono predire la sensibilità o la resistenza alle terapie mirate. Nell’attuale routine clinica, i percorsi diagnostici per l’identificazione dei due gruppi di alterazioni sono disgiunti e i pazienti sono spesso studiati sulla base di un unico marcatore molecolare. Questo approccio – oltre a moltiplicare i costi della diagnosi – riduce la probabilità di offrire le migliori opzioni di trattamento a ogni paziente».
In questo contesto, come si inserisce la tua linea di ricerca, che prosegue dopo gli anni di borsa FUV?
«Il nostro progetto vuole validare lo strumento diagnostico su cui implementare un flusso integrato per l’identificazione simultanea delle varianti ereditarie e delle mutazioni somatiche. Vogliamo mettere a punto un “pannello genico”, cioè un set selezionato di geni da analizzare tramite una tecnica di sequenziamento di nuova generazione. L’identificazione delle eventuali varianti ereditarie sarà utile per caratterizzare il rischio di tumore genetico, mentre l’identificazione delle mutazioni somatiche potrà supportare la scelta della terapia più adatta e predire la sensibilità o la resistenza ai nuovi farmaci molecolari, inclusa l’immunoterapia».
Quali sono le prospettive per la conoscenza biomedica?
«Questo metodo consentirà di sfruttare le conoscenze attuali per caratterizzare e classificare in maniera più dettagliata le casistiche oncologiche e stabilire una corretta strategia di prevenzione per la riduzione del rischio nei pazienti e nelle famiglie portatrici di varianti».
E le possibili applicazioni per la salute umana?
«Questo lavoro permetterà di porre le basi per un'esecuzione su larga scala di un accurato screening genetico dei tumori aggressivi, con l’obiettivo di ridurre i tempi e i costi della diagnostica oncologica. Lo studio fa parte di un progetto più ampio e ambizioso, condotto da Alleanza Contro il Cancro che vuole implementare l’oncologia di precisione all’interno degli ospedali nazionali appartenenti alla rete. Il metodo che abbiamo sviluppato sarà applicato in un primo studio multicentrico che includerà 4000 pazienti con cancro al seno, colon retto e ovaio».
Gianmaria, sei mai stato all’estero per un’esperienza di ricerca?
«Dopo la laurea sono stato sei mesi allo Smurfit Institute of Genetics del Trinity College di Dublino e durante il dottorato sono stato visiting scientist al J. Craig Venter Institute di Rockville».
Cosa ti hanno lasciato queste esperienze?
«È stato molto importante fare un’esperienza all’estero: ho avuto il privilegio di lavorare in Istituti scientificamente e tecnologicamente all’avanguardia. Questo mi ha permesso di crescere sia a livello personale che professionale, arricchendomi di conoscenze e competenze».
C’è qualche episodio particolare che ti è capitato durante il tuo lavoro?
«Di trovarmi a parlare con James Watson, premio Nobel per la medicina e co-scopritore della struttura a doppia elica del DNA. Eravamo in un pub, entrambi con una pinta di Guinness in mano. Accadde durante il mio periodo al Trinity College di Dublino: custodisco gelosamente una foto che ci ritrae in questa simpatica situazione».
Ricordi il momento in cui hai capito che la tua strada era quella della scienza?
«Sono sempre stato interessato alle materie scientifiche, soprattutto nell’ambito della biologia e della medicina. Già da bambino mi feci regalare un microscopio e ricordo benissimo lo stupore che suscitava in me l’osservazione tramite quella lente, la curiosità di conoscere e il desiderio di capire tutto ciò che ci circonda. Da grande, il desiderio era quello di fare il medico, ma alla fine del liceo cambiai idea e decisi che quella della ricerca biomedica fosse una carriera più emozionante e interessante».
Qual è stato il risultato scientifico più entusiasmante della tua carriera fino a oggi?
«In collaborazione con un team internazionale, siamo riusciti a dimostrare un meccanismo di resistenza a una terapia del tumore al seno ormone-responsivo, basata sugli inibitori dell’enzima aromatasi. Questa molecola è un bersaglio di un trattamento farmacologico. Nello specifico, abbiamo individuato un’alterazione genetica (amplificazione) che causa l'aumento della produzione dell’aromatasi in una percentuale significativa di pazienti. Questa amplificazione genica permette alle cellule tumorali di produrre di nuovo estrogeni e quindi di riprodursi e diffondersi».
Che ripercussioni può avere questo risultato per la diagnosi e la cura oncologica?
«Questa scoperta potrà avere un potenziale clinico rilevante: si potrebbe implementare un test in grado di verificare e quantificare questa specifica alterazione e comprendere in anticipo quali pazienti con questa tipologia di tumore svilupperanno resistenza. In questo modo, si potrebbe intervenire tempestivamente con strategie di trattamento più efficaci».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«Ne amo la componente creativa e speculativa: ogni giorno mi permette di apprendere cose nuove e non mi lascia il tempo per la noia. La ricerca insegna a porsi domande, a fare ipotesi, a dubitare e a cercare di rispondere a interrogativi difficili, combinando i risultati di una moltitudine esperimenti. Inoltre, ne amo la natura collaborativa: la ricerca richiede il continuo confronto tra persone con competenze diverse».
In cosa, secondo te, può migliorare la scienza e la comunità scientifica?
«La pandemia di Covid-19 ha sicuramente accresciuto la fiducia nella scienza anche all’interno dell’opinione pubblica, facendo risaltare l'importanza di fare ricerca e mettendo in evidenza come siano fondamentali risorse umane e finanziarie adeguate. Abbiamo bisogno di aumentare la competitività’ a livello internazionale, migliorando il sistema di finanziamento pubblico e creando percorsi di carriera per i giovani».
Pensi che ci sia un sentimento antiscientifico in Italia?
«Esiste un sentimento antiscientifico che prova a fare molto rumore: è compito e responsabilità anche dei ricercatori generare fiducia per aiutare a contrastarlo, traducendo in un linguaggio semplice e comprensibile il significato e i limiti delle nostre ricerche. Citando Galilei: “Le verità scientifiche non si decidono a maggioranza”».
Cosa fai nel tempo libero?
«Amo viaggiare e stare immerso nella natura, fare lunghe camminate in montagna e snowboard d’inverno».
Sei soddisfatto della tua vita?
«Sì, sono soddisfatto».
Gianmaria, hai un messaggio per le persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica, e che sono state parte della tua borsa FUV?
«Vorrei ringraziarli per questo importante atto di fiducia. È anche grazie al loro contributi se possiamo portare avanti le nostre ricerche giorno dopo giorno e generare nuove conoscenze che diano speranza a chi è malato. E non solo».
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