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Chiara Segré
pubblicato il 19-09-2016

Il gene RAB39B nei disturbi dello spettro autistico



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Maria Lidia Mignogna studia uno dei geni implicati nelle disabilità intellettive collegate alle sindromi dello spettro autistico. L’obiettivo? Capire meglio per sviluppare trattamenti efficaci

Il gene RAB39B nei disturbi dello spettro autistico

Le malattie genetiche che causano disabilità intellettiva associata ai disturbi dello spettro autistico hanno un’incidenza del tre per cento nella popolazione mondiale. Tali patologie sono caratterizzate da limitazioni nelle funzioni cognitive, del linguaggio e delle capacità sociali e comunicative, costituendo un problema a livello sociale, sanitario e assistenziale. I disturbi dello spettro autistico sono malattie complesse e i meccanismi molecolari sono ancora in gran parte oscuri. Tuttavia sempre più studi suggeriscono che queste malattie si originino nel grembo materno durante lo sviluppo del sistema nervoso, anche se si manifestano a partire dai 12-18 mesi di vita, ed esiste una base genetica (nessun legame, invece, con le vaccinazioni o l’alimentazione, come alcuni sostengono). Tra i geni che giocano in ruolo in queste malattie, vi è RAB39B, che è uno dei geni responsabili della disabilità intellettiva associata ai disturbi dello spettro autistico. Questo gene è l’oggetto di studio di Maria Lidia Mignogna (nella foto), biotecnologa di 31 anni e oggi ricercatrice post-dottorato nel Dipartimento di Neuroscienze all’Ospedale San Raffaele di Milano.

Maria Lidia, di cosa ti occupi nei dettagli?

«Io studio il ruolo di RAB39B, un gene che codifica le istruzioni per una proteina coinvolta nella corretta comunicazione tra neuroni; di conseguenza, la sua assenza altera il funzionamento del cervello con sintomi di disabilità intellettiva tipica dei pazienti affetti da sindromi autistiche. Come e con che meccanismo? È quello che voglio capire. Trattandosi di una malattia multifattoriale, che si manifesta con disturbi complessi del comportamento in organismi superiori, è essenziale analizzare modelli animali, nel mio caso topi in cui manca la proteina RAB39B. Studiare gli effetti della sua mancanza permette di dedurre il meccanismo di azione in fisiologia e patologia, prerequisito essenziale per identificare se farmaci già in commercio possono essere usati come trattamenti efficaci o di svilupparne nuove terapie, che al momento scarseggiano per questo tipo di patologie».

Quali prospettive apre il tuo progetto per i pazienti che sono colpiti da questi disturbi?

«La ricerca scientifica condotta su queste patologie è fondamentale per capirne l'eziologia e, con l’aiuto dei modelli animali, è realmente possibile identificare una possibile terapia. Noi nel nostro piccolo stiamo contribuendo ad apportare un po’ di conoscenza: parte della ricerca che sto svolgendo è stata pubblicata all’inizio del 2015 sulla rivista Nature Communications».

Nel 2012 hai trascorso un periodo alla Johns Hopkins University di Baltimora, negli Stati Uniti. Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

«La consapevolezza che in Italia abbiamo una grande dinamicità di pensiero e azione nell’apprendere e nell’apportare novità di conoscenza. Se solo si credesse nella ricerca e nella capacità dei ricercatori in Italia come all’estero, sicuramente non ci sarebbe l’esodo di menti brillanti capaci di lavorare in team e di vedere in grande».

Perché hai scelto la strada della ricerca?

«Ci sono arrivata per caso o, forse, per fortuna. Inizialmente volevo fare medicina, ma non passai il test di ingresso e mi iscrissi a Biotecnologie. Lì ho incontrato professori che hanno risvegliato in me la voglia di farmi domande e trovare soluzioni. Alle neuroscienze sono arrivata alla dell’università. Sono stata per anni un’educatrice presso l’associazione scout AGESCI dove ho conosciuto bambini e ragazzi affetti da disabilità intellettive e neuropsichiatri. La voglia di scoprire la “soluzione” mi hanno motivata a trovare un gruppo di ricerca che studiasse i disturbi cognitivi». 

Un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare

«Mi viene subito in mente il momento in cui un esperimento confermò la validità della nostra ipotesi e il meccanismo di azione di una proteina. Urlai di gioia. Mi sono commossa anche quando ho vinto la borsa della Fondazione Umberto Veronesi: un anno di tranquillità economica».

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Ogni minuto è una sfida contro il tempo per trovare la direzione giusta. La gioia nell’affrontare la giornata di laboratorio è data dai piccoli successi che danno la carica e la speranza di fare qualcosa di utile per la collettività».

E cosa invece eviteresti volentieri?

«La rincorsa alla pubblicazioni e ai finanziamenti. Fare ricerca significa scommettere sull’impossibile, non sulla via già calpestata perché ti permetterà di pubblicare più facilmente e quindi ottenere nuovi finanziamenti».

Come ti vedi fra dieci anni?

«Sfortunatamente non ci è dato di sognare troppo e di fare progetti così a lungo termine. Spero solo di riuscire ancora a fare il mio lavoro con la gioia e l’entusiasmo che ho adesso».

Quale sarà a tuo parre il filone di ricerca più promettente per i prossimi cinquant’anni?

«Quello sulla diagnosi precoce. La ricerca ha tra gli obiettivi primari produrre conoscenza per identificare le malattie il prima possibile, e così curarle al meglio».

Qual è per te il senso profondo che ti spinge a fare ricerca ogni giorno?

«La speranza che ogni mia scoperta possa spingersi fuori dalle mura del laboratorio e dare sollievo a qualcuno».

Sei felice della tua vita?

«Sì, faccio quello che mi piace e sono circondata da persone che amo. Mi piacerebbe solo poter essere più serena guardando al mio futuro lavorativo».

Con chi ti piacerebbe andare a cena una sera?

«Mi sarebbe piaciuto cenare col pittore Piet Mondrian: nei suoi Tableaux è riuscito a unire due caratteristiche che amo: il rigore scientifico e l’esplosione del colore, che con la sua forza e solarità si interseca tra le maglie del rigido schema rendendolo unico, forte, bello e pieno di gioia».


@ChiaraSegre

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Chiara Segré
Chiara Segré

Chiara Segré è biologa e dottore di ricerca in oncologia molecolare, con un master in giornalismo e comunicazione della scienza. Ha lavorato otto anni nella ricerca sul cancro e dal 2010 si occupa di divulgazione scientifica. Attualmente è Responsabile della Supervisione Scientifica della Fondazione Umberto Veronesi, oltre che scrittrice di libri per bambini e ragazzi.


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