La biotecnologa Marta Colletti a Roma studia come le cellule del neurblastoma comunicano con le cellule sane del midollo osseo per favorire la loro disseminazione e metastasi
Il neuroblastoma è il più comune tumore solido extra-cranico in età pediatrica. Colpisce il sistema nervoso simpatico e si origina dalle cellule della cresta neurale durante lo sviluppo embrionale. Il neuroblastoma, infatti, si manifesta principalmente nei primi anni di vita: l'età media alla diagnosi è tra 1 e 2 anni, la stragrande maggioranza dei neuroblastomi (circa il 90%) viene scoperta entro i 6 anni ed è estremamente raro nell’adolescente e nell’adulto. Moltissimi sono stati i progressi nella cura di questo tumore; tuttavia, spesso i piccoli pazienti presentano già metastasi alla diagnosi, e non sono rare le ricadute della malattia, soprattutto al midollo osseo, rendendo più complesso il percorso di guarigione. Anche se molti studi sono stati condotti sugli aspetti molecolari e genetici implicati nell’aggressività e nella progressione del neuroblastoma, i meccanismi coinvolti nell’affinità di questo tumore verso il midollo osseo non sono ancora conosciuti. Su questo filone di ricerca lavora Marta Colletti (nella foto), biotecnologa e ricercatrice nel laboratorio di terapia genica dei tumori all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, che fa parte dei dieci ricercatori sostenuti da Fondazione Veronesi nell’ambito del progetto Gold for kids a sostengo dell’oncologia pediatrica.
Marta, su cosa si focalizza la tua ricerca?
«Tutte le cellule tumorali, anche quelle di neuroblastoma, comunicano con le altre cellule sane al fine di favorire la propria sopravvivenza e anche la migrazione e la diffusione in altri tessuti del corpo. I principali “messaggeri” sono piccole vescicole, chiamate “esosomi” prodotte in elevata quantità dalle cellule tumorali, al cui interno sono presenti molecole come proteine e piccoli frammenti di Dna o Rna. L’obiettivo principale della mia ricerca è caratterizzazione il contenuto degli esosomi derivanti da cellule di neuroblastoma in coltura e da pazienti con neuroblastoma a differenti stadi, e la conseguente analisi di come queste vescicole possono influenzare le cellule bersaglio. In particolare mi concentrerò sulle cellule staminali mesenchimali del midollo osseo, implicate nel “preparare” questo tessuto ad accogliere cellule di neuroblastoma metastatiche, favorendone la crescita. Voglio capire quali sono i messaggeri contenuti negli esosomi rilasciati dal neuroblastoma per costruirsi la sua nicchia metastatica nel midollo».
Quali prospettive apre il tuo progetto per la conoscenza biomedica e le eventuali applicazioni alla cura del neuroblastoma?
«Sono due le principali applicazioni future: la prima è identificare all’interno delle vescicole, marcatori di diagnosi precoce, dato che il problema è che spesso il neuroblastoma viene diagnosticato quando già è in fasi avanzate. Inoltre, la conoscenza più approfondita della comunicazione tra cellule tumorali e quelle del midollo osseo permetterà di sviluppare strategie di terapia mirata, per ridurre il rischio di ricadute e metastasi».
Ricordi il momento in cui hai capito che la tua strada era quella della scienza?
«Da piccola avevo un quaderno su cui scrivevo formule e teorie senza senso ma piene di significato per me che avevo solo sei anni e fingevo di essere una grandissima chimica, astrofisica, biologa».
Qual è il momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare?
£Sicuramente quando hanno accettato sulla rivista Gastroenterology il lavoro del mio dottorato, e naturalmente quando ho ricevuto la mail di assegnazione di una borsa della Fondazione Umberto Veronesi: una grande soddisfazione».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Spero di poter fare ancora questo lavoro».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«La sua continua evoluzione: mi piace svegliarmi la mattina ed avere sempre cose diverse da fare e da imparare. Mi piace l’idea di dare un piccolo contributo al progresso giorno dopo giorno».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«La sensazione di avere poco tempo a disposizione e la delusione quando non si ottiene il risultato sperato. E naturalmente, eviterei la sensazione di essere sempre sul filo del rasoio sapendo che un giorno posso fare ricerca e un domani… chi lo sa».
Qual è il senso profondo che dà un significato alle tue giornate lavorative?
«Il pensiero di poter aiutare le persone malate, soprattutto i bambini, e la consapevolezza di contribuire con qualche tassello a definire il grane mosaico della ricerca biomedica».
Chiara Segré
Chiara Segré è biologa e dottore di ricerca in oncologia molecolare, con un master in giornalismo e comunicazione della scienza. Ha lavorato otto anni nella ricerca sul cancro e dal 2010 si occupa di divulgazione scientifica. Attualmente è Responsabile della Supervisione Scientifica della Fondazione Umberto Veronesi, oltre che scrittrice di libri per bambini e ragazzi.