A Milano Marta Boccazzi sta studiando la relazione tra le cellule gliali che sostengono i neuroni e l’influenza degli ormoni femminile nello sviluppo della malattia di Alzheimer
La malattia di Alzheimer è una malattia neurodegenerativa e la causa più frequente di demenza senile. Colpisce circa il 5% delle persone con più di 60 anni e in Italia si stimano circa cinquecentomila ammalati. Prende il nome dallo psichiatra tedesco Alois Alzheimer, che per la prima volta la descrisse nel 1906. Il primo sintomo è di solito la difficoltà a ricordare eventi recenti, in seguito compaiono perdita della capacità di linguaggio, disorientamento, cambiamenti di umore e personalità, depressione e, infine, isolamento e perdita delle capacità mentali e cognitive di base. La malattia è causata dal deposito di proteine anomale in placche tossiche, che causano la morte dei neuroni. Le cause prime che portano alla formazione delle placche sono ancora in gran parte oscure e al momentonon esiste una cura efficace per combattere o arrestare la malattia, che è progressiva. La ricerca scientifica è dunque più che mai necessaria perché senza di essa non c’è speranza di trovare in futuro terapie efficaci. Marta Boccazzi è una dei molti ricercatori al lavoro proprio sulla malattia di Alzheimer: 32 anni, di Legnano, in provincia di Milano, una laurea in biologia e un dottorato di ricerca conseguito tra Milano e Salisburgo.
Marta, di cosa ti occupi precisamente?
«La mia ricerca si focalizza sul ruolo, nella fisiopatologia della malattia di Alzheimer, delle cellule gliali; sono cellule del cervello, che hanno funzione nutritiva e di sostegno per i neuroni e partecipano attivamente alle loro attività, e sono quindi essenziali nella corretta trasmissione nervosa.Le cellule gliali comunicano con quelle nervose attraverso un sistema di molecole-segnale, chiamato purinergico.Gli ormoni sessuali femminili, gli estrogeni, interagiscono con questo sistema: il mio obiettivo è dunque capire se alterazioni ormonali, ad esempio dopo la menopausa, che predispone le donne al morbo di Alzheimer, hanno una conseguenza sul sistema purinergicoe quindi sulla sopravvivenza e funzionalità delle cellule gliali che possano a loro volta influenzare i neuroni circostanti, aprendo la strada alla manifestazione della malattia».
Quale può essere l’impatto della tua ricerca nel campo della malattia di Alzheimer?
«Nonostante si sappia molto dei meccanismi alla base della sua progressione, la causa scatenante e il rapporto tra i diversi fattori in gioco rimangono poco chiari. Molte sono le ricerche cui neuroni direttamente colpiti dalla malattia, mentre noi abbiamo scelto un approccio alternativo, ma complementare, sulle cellule di supporto ai neuroni. Speriamo di contribuire a identificare nuovi bersagli farmacologici su cui agire per contrastare i sintomi della patologia».
Ricordi il momento in cui hai capito che la tua strada era quella della scienza?
«Ricordo perfettamente il giorno in cui la semplice curiosità verso la disciplina si è trasformata in quelclassico convincimento:“Ecco cosa voglio fare da grande”. Ero al liceo, durante una lezione di scienze sull’ingegneria genetica: in quel momento fui rapita dalla possibilità non solo di capire ma anche di “manipolare” il nostro corpo per trovare soluzioni a problemi medici».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Con un camice e una pipetta in mano. Tuttavia, non mi azzardo a fare pronostici più sicuri: il lavoro del ricercatore è talmente imprevedibile che rende difficile immaginare dove ti condurrà anche nel futuro prossimo».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«Il lato ludico di questo lavoro, che a volte sarà anche faticoso e frustrante, ma è soprattutto divertente».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«La precarietà. Alle volte non è facile confrontarsi con persone della mia età, amici e conoscenti, che lavorano in campi differenti e che hanno già raggiunto una stabilità che difficilmente il mio lavoro mi potrà mai dare».
Se ti dico ricerca, cosa ti viene in mente?
«Metodo e tenacia. È essenziale non rincorrere un risultato ma analizzare con attenzione i dati e capire dove ci stanno conducendo. Allo stesso tempo, è necessario insistere, insistere e ancora insistere. Se anche gli esperimenti non portano verso il risultato che si sperava, non bisogna gettare la spugna ma utilizzare il lavoro svolto per ripartire da nuove ipotesi».
Quale figura ha ispirato nella tua vita professionale?
«Rita Levi Montalcini. Ho invidiato la sua tenacia e la sua forza. Ho adorato Elogio dell’imperfezione, in ogni pagina traspare la sua straordinarietà sia come persona sia come scienziata. È sempre stata una grande fonte di ispirazione per il mio lavoro».
Quali sono le sfide della ricerca biomedica del futuro?
«Nonostante il genoma umano sia stato decodificato ormai da 15 anni rimangono ancora molti misteri a riguardo. Basti pensare che i geni costituiscono solo il 3% del genoma mappato; resta una quantità enorme di materiale genetico di cui non conosciamo ancora funzionamento e scopo ma su cui l’interesse scientifico si sta sempre più spostando. Penso che da lì arriverà molta conoscenza in futuro che potrà essere applicata anche in ambito medico».
Cosa dà un significato profondo alle tue giornate lavorative?
«Lamia motivazione principale è pensare che una mia scoperta possa uscire dalle mura del laboratorio e produrre speranza e sollievo per i malati e le loro famiglie».
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Chiara Segré
Chiara Segré è biologa e dottore di ricerca in oncologia molecolare, con un master in giornalismo e comunicazione della scienza. Ha lavorato otto anni nella ricerca sul cancro e dal 2010 si occupa di divulgazione scientifica. Attualmente è Responsabile della Supervisione Scientifica della Fondazione Umberto Veronesi, oltre che scrittrice di libri per bambini e ragazzi.