Daniela Benati studia come modificare i linfociti T dei pazienti affetti da un tumore del polmone per renderli capaci di eliminare le cellule «malate»
Attivare il sistema immunitario per combattere i tumori è oggi l’ultima frontiera nella lotta contro il cancro. L’idea alla base di questo approccio terapeutico, chiamato immunoterapia, è semplice: combattere le malattie oncologiche rinforzando il sistema immunitario del paziente e attivandolo per attaccare le cellule malate dall’interno. Combattere le minacce esterne e interne, come i tumori, è un processo svolto normalmente dalle nostre difese immunitarie, ma alcune neoplasie sono in grado di diffondersi e proliferare proprio attraverso l’inibizione della risposta immunitaria.
Una delle strategie terapeutiche più promettenti consiste nel rimuovere il freno al sistema immunitario «inserito» dal tumore, una tecnica che ha dato risultati molto incoraggianti nel trattamento di tumori come il melanoma e il tumore del polmone. Una diversa strategia consiste invece nell’utilizzare le cellule del sistema immunitario del paziente, modificandole e rendendole in grado di individuare ed eliminare il tumore. In questo filone di ricerca si inserisce lo studio di Daniela Benati che, grazie al sostegno di Fondazione Umberto Veronesi studia come «armare» i linfociti T di pazienti affetti da carcinoma polmonare per colpire selettivamente le cellule cancerogene.
Daniela, vuoi darci qualche dettaglio in più sulla tua ricerca?
«Con il mio studio punto a modificare i linfociti T di pazienti affetti da tumore al polmone per fare in modo che esprimano dei recettori in grado di riconoscere e legare proteine specifiche presenti sulle cellule tumorali. In questo modo spero di riuscire ad attivare una risposta immunitaria selettiva contro le cellule del carcinoma polmonare».
Come mai hai deciso di utilizzare i linfociti T ?
«I linfociti T sono i responsabili dell’immunità cellulare e sono in grado di riconoscere un piccolo frammento di proteina estranea, chiamato antigene, presente su una cellula infettata da un virus o su una cellula tumorale, per poi eliminarla. I linfociti T riconoscono i diversi antigeni attraverso un recettore specifico, per cui è possibile sfruttare questo meccanismo e modificare questo recettore al fine di indirizzare i linfociti contro le cellule tumorali».
Come pensi di intervenire sul genoma dei linfociti T?
«Per modificare il gene del recettore dei linfociti T utilizzerò il sistema CRISPR/Cas9, una nuova tecnica di ingegneria genetica simile ad una forbice molecolare che permette di correggere in modo rapido e selettivo un tratto specifico di Dna».
Quali prospettive potrebbe avere la tua ricerca per la salute umana?
«La capacità dei linfociti T modificati di riconoscere e uccidere le cellule tumorali verrà valutata prima di tutto in vitro. Se i risultati saranno positivi, sarà possibile pensare di re-infondere i linfociti T nel paziente e valutare la loro capacità di indurre un’efficace risposta immunitaria in grado di eliminare il tumore».
Daniela, nel tuo percorso di ricerca sei mai stata all’estero?
«Sì, dopo il dottorato sono stata 4 anni all’Istituto Pasteur di Parigi dove mi sono occupata di studiare la risposta immunitaria contro HIV in pazienti sieropositivi, in grado però di controllare l’infezione senza l’assunzione di farmaci. Grazie a questo progetto, sono riuscita a identificare delle proteine che permettevano di indurre una risposta molto efficace contro HIV».
Quatto anni sono molti. Cosa ti ha spinto ad andare?
«Sentivo la necessità di fare un’esperienza in un importante Istituto di ricerca internazionale e non sono stata delusa. Ho avuto la possibilità di confrontarmi con ricercatori di ambiti scientifici diversi dal mio e provenienti da varie parti del mondo e questo mi ha aiutato a crescere sia dal punto di vista professionale che personale. Gestire le differenze culturali non è stato sempre facile, e inoltre ho dovuto affrontare anche l’ostacolo della lingua. Quando sono partita non parlavo francese e, sebbene sul lavoro non fosse un problema perché potevo parlare inglese, nella vita extra-lavorativa è stato complicato».
C’è un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare?
«Sicuramente quando ho vinto la borsa della Fondazione Veronesi e ho potuto cominciare questa nuova ricerca che mi consente di mettere a frutto tutte le conoscenze acquisite durante i miei anni di ricerca. È un progetto molto ambizioso, che spazia dalla biologia molecolare all’immunologia, le discipline che amo di più, e sono convinta abbia grandi potenzialità».
Come ti vedi tra dieci anni?
«Spero di avere un mio laboratorio di ricerca a sviluppare approcci terapeutici sempre più innovativi contro il cancro».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«Studiare, capire, riuscire a saziare la voglia di conoscenza. E anche la soddisfazione che si prova quando quell’esperimento che ti ha fatto impazzire per settimane alla fine dà i risultati sperati».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«Il precariato e la mancanza di stabilità».
Raccontaci ora qualcosa di te. Quali sono i tuoi hobby fuori dal laboratorio?
«Adoro viaggiare».
Hai una famiglia?
«Ho un marito fantastico con il quale siamo riusciti ad affrontare e superare anche il mio periodo all’estero. Quando sono stata a Parigi per 4 anni, infatti, mio marito è rimasto in Italia. Vivere una relazione con più di 1000 km di distanza non è stato comodo, ma ha rafforzato il nostro rapporto».
E se un giorno uno dei tuoi figli ti dicesse di voler fare il ricercatore, come reagiresti?
«Le farei capire quanta pazienza e passione ci vogliono per fare ricerca, e comincerei con i lati negativi di questo lavoro. Poi però mi scioglierei e racconterei l’immensa soddisfazione che si prova quando la tua strategia terapeutica funziona, il momento in cui non vedi l’ora di ricominciare una nuova sfida».