Studiando gli organelli produttori di energia nelle cellule, Dario Brunetti vuole chiarire l’origine delle differenze tra uomini e donne nell’Alzheimer, e se un’integrazione dietetica possa essere d’aiuto
Il morbo di Alzheimer è la causa più comune di demenza: si stima che ne soffrano più di 35 milioni di persone in tutto il mondo, 500 mila solo in Italia. La malattia colpisce più frequentemente la popolazione femminile, probabilmente perché (a differenza di quanto avviene negli uomini) nelle donne la menopausa comporta una drastica diminuzione degli ormoni steroidei (e del loro effetto neuroprotettivo). Attualmente non sono disponibili terapie efficaci per prevenire o curare l'Alzheimer: è quindi importantissimo studiare più approfonditamente questa malattia per comprenderne meglio le cause e i meccanismi.
I tratti diagnostici più distintivi dell’Alzheimer sono le cosiddette placche amiloidi (accumuli di proteina beta-amiloide al di fuori dei neuroni) e, all’interno delle cellule, grovigli di proteina Tau modificata in maniera anomala: ad entrambi i fenomeni viene imputata la distruzione dei neuroni che si osserva nella patologia. Tuttavia ci sono elementi ancora più precoci nel corso di questa malattia: una disfunzione dei mitocondri (piccoli organelli che producono energia nelle cellule), la riduzione del metabolismo energetico del cervello e l’aumento dello stress ossidativo.
Dario Brunetti lavora all’Università degli Studi di Milano e, grazie a un finanziamento della Fondazione Umberto Veronesi, punta a far luce su questi meccanismi, fra di loro collegati, e a capire in che modo abbiano un impatto diverso su uomini e donne.
Dario, di cosa ti occupi esattamente nel tuo lavoro?
«Nel mio progetto, reso possibile grazie ad un modello animale (un topo con una mutazione che provoca invecchiamento precoce e sintomatologia clinica simile all’Alzheimer), mi sono posto due obiettivi. Il primo è quello di identificare i meccanismi molecolari alla base delle differenze di genere nell’Alzheimer: si sospetta che un ruolo importante sia giocato da difetti nel “controllo qualità mitocondriale”, il processo che serve ad eliminare i mitocondri danneggiati che rilasciano più radicali liberi e peggiorano lo stress ossidativo. Voglio analizzare in particolare un enzima dei mitocondri (Pitrm1) deputato a degradare la proteina beta-amiloide: il funzionamento di Pitrm1 è fortemente ridotto proprio in caso di stress ossidativo. In seconda battuta voglio testare gli effetti terapeutici di una specifica supplementazione dietetica con aminoacidi ramificati, che in altri modelli è risultata in grado di ridurre lo stress ossidativo e promuovere così il “ringiovanimento” dei mitocondri».
Se i risultati saranno buoni le ricadute quindi potrebbero essere concrete…
«Esatto: sarebbe possibile pensare di sviluppare approcci nutraceutici genere-mirati per prevenire o trattare la malattia di Alzheimer».
Dario, tu hai trascorso 4 anni all’Università di Cambridge: cosa ti ha lasciato questa esperienza?
«È stato sicuramente uno dei periodi più importanti della mia vita: mi ha permesso di crescere molto sia a livello tecnico-scientifico che umanamente. Cambridge non ha certo il clima e il buon cibo dell’Italia, ma è il paradiso della ricerca: tutto è concepito per permettere a ogni ricercatore di esprimere al massimo il proprio potenziale. Questa esperienza mi ha lasciato un modus operandi da seguire e mi ha reso ancora più appassionato verso la ricerca. Ho lasciato il mio laboratorio e i miei colleghi di Cambridge nell’ottobre scorso, e devo dire che mi sono un po' commosso».
Come mai hai scelto di fare ricerca?
«Questa domanda mi è stata posta tante volte. Ho seguito una passione che è cominciata da piccolissimo, quando mia madre per farmi mangiare sfogliava, anziché i libri con le favolette, il suo libro di biologia ricco di figure “strane” … era l’unico modo per farmi aprire la bocca. Da lì si è passati ai regali di Natale a tema, come il microscopio e il piccolo chimico. Ma il momento in cui ho capito che la mia strada era proprio quella della scienza è stato quando ho messo piede per la prima volta in laboratorio: mi sentivo a casa. Mi ritengo fortunato a poter fare questo mestiere: non tutti hanno la possibilità di fare un lavoro di cui sono innamorati».
E qual è stato il momento più bello che ti sia capitato sul lavoro?
«Anni fa studiavo una malattia genetica neurodegenerativa molto rara. Andai in Olanda a presentare i risultati del mio lavoro ad un congresso, e per quei risultati vinsi un premio che mi fu consegnato dalla mamma di una piccola paziente affetta da tale malattia. Ho ancora impresso nella mente lo sguardo di quella mamma, che con gli occhi lucidi mi ringraziava per la speranza che stavo dando alla loro famiglia lavorando su quella malattia fino ad allora poco conosciuta e studiata quasi da nessuno».
E l’episodio più buffo?
«Anni fa andai a Venezia per partecipare a un congresso scientifico che si teneva in un’ala del palazzo del Casinò. Non sapevo che nell’ala accanto in contemporanea c’era un meeting di parrucchieri e professionisti della cosmesi. Arrivai di corsa e sbagliai aula: mi feci 15 minuti di aggiornamento sulle nuove creme antiaging…».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«L’idea di poter “vedere il film in anteprima”: sei protagonista di nuove scoperte, nuove preziose informazioni di cui tu per primo vieni a conoscenza, e che aggiungono un tassello al progresso dell’umanità».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«Sicuramente la precarietà lavorativa e il fatto che in Italia la ricerca non sia ancora considerata un vero mestiere. La spada di Damocle dei contratti brevi e atipici distoglie noi ricercatori dal nostro reale lavoro. Per avere un minimo di stabilità lavorativa bisogna diventare professore associato. Questo, anziché favorire la collaborazione o una competizione costruttiva, spesso provoca solo una guerra tra poveri».
Pensi che il progresso scientifico abbia dei lati oscuri?
«Ogni cosa è relativa e dipende da come la si usa: la scoperta del fuoco ha rappresentato un progresso enorme per l’umanità… poi c’è chi come Nerone l’ha utilizzata nel modo sbagliato».
Hai qualche passione al di fuori dell’ambito scientifico?
«Da circa dieci anni pratico sport da combattimento e arti marziali miste. Ottime discipline per mantenere giovane il fisico e lo spirito».
Hai famiglia?
«Ho una splendida moglie, anche lei ricercatrice, e due figlie meravigliose».
Se un giorno una di loro ti dicesse che vuole fare la ricercatrice, come la prenderesti?
«Sarei contento, e sicuramente le suggerirei di fare una lunga esperienza all’estero».
Agnese Collino
Biologa molecolare. Nata a Udine nel 1984. Laureata in Biologia Molecolare e Cellulare all'Università di Bologna, PhD in Oncologia Molecolare alla Scuola Europea di Medicina Molecolare (SEMM) di Milano, Master in Giornalismo e Comunicazione Istituzionale della Scienza all'Università di Ferrara. Ha lavorato nove anni nella ricerca sul cancro e dal 2013 si occupa di divulgazione scientifica