Gestire la fase acuta è la priorità per i pazienti con sepsi. Ma oggi gli specialisti si interrogano anche sulla qualità di vita di chi ci è passato
La sepsi rappresenta una problematica sanitaria globale, che affligge oltre 30 milioni di persone ogni anno (60.000 soltanto in Italia) e causa più di cinque milioni di decessi nel mondo. Ma è il momento di pensare anche a chi ce l'ha fatta a superarla.
COS’È LA SEPSI
La condizione - nota anche con il nome di setticemia, che come estrema complicanza fatale può avere lo shock settico - è scatenata da un’infezione che può dare origine a una reazione anomala capace di danneggiare i nostri organi (cervello, cuore, reni, fegato, polmoni) e renderli non più funzionanti. A renderne difficile la gestione, oltre all'estrema complessità, è anche la scarsa risposta che oggi diversi microrganismi mostrano agli antibiotici.
Quando si riesce a gestire la fase acuta, si apre poi un altro fronte: di quale assistenza hanno bisogno queste persone nel tempo? La domanda è priva di risposta. «In nessun Paese del mondo esistono protocolli standardizzati per la gestione di questi pazienti nel medio e nel lungo termine», conferma Gianpaola Monti, dirigente medico dell'unità di terapia intensiva 1 dell'ospedale Niguarda di Milano e membro del gruppo di studio sulle infezioni in area clinica della Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (Siaarti). Ma il tema è di attualità crescente, per due ragioni: i pazienti che superano una setticemia sono in aumento ma pure più a rischio di ricadute o complicanze, questo è quello che si è appreso dalla loro osservazione negli ultimi vent'anni.
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SEPSI: COSA RIMANE DA SCOPRIRE?
Il tema della gestione dei pazienti colpiti da sepsi oltre la fase acuta è stato affrontato in una review - un'analisi dei diversi studi condotti sul tema - pubblicata nelle scorse settimane sul Journal of the American Medical Association. A firmarla un gruppo di ricercatori delle università di Pittsburgh e del Michigan, intenzionati ad andare oltre la gestione a breve termine della sepsi. «Dobbiamo concentrarci non soltanto sul salvataggio della vita del paziente, ma pure sulla sua qualità una volta che la persona colpita dalla sepsi abbandona l'ospedale», afferma Derek Angus, direttore del dipartimento di terapia intensiva all'Università di Pittsburgh e prima firma della pubblicazione. I ricercatori hanno passato in rassegna gli studi clinici riguardanti le persone colpite da una sepsi, arrivando a dedurre che in realtà gli specialisti coinvolti si sono finora posti poco il problema della gestione di questi pazienti a lungo termine. Fino a pochi anni fa, d'altra parte, i tassi di mortalità legati alla sepsi erano ancora più alto di quanto non lo siano adesso. E non di rado capitava che negli ospedali le cause di morte venissero ricondotte a quello che era il motivo del ricovero - le complicanze di un'infezione o di un intervento chirurgico - senza indagare la possibile comparsa di una setticemia. Si spiega così il «ritardo» di conoscenza che si avverte rispetto ad altre condizioni acute, a cui (pure) sempre più spesso oggi però si sopravvive: come l'infarto del miocardio o l'ictus cerebrale.
LA VITA OLTRE LA SEPSI
In Italia si stima che ci siano sessantamila morti all’anno a causa della sepsi. Ma si sa già dal 2014 - grazie a uno studio pubblicato sulla rivista The Lancet Respiratory Medicine - che la mortalità a livello globale risulta in calo: dal 35 (nel 2000) al 18 per cento (nel 2012). Logico dunque interrogarsi sulle aspettative di vita che accompagnano questi pazienti. «Oggi sappiamo che queste persone rischiano di tornare a casa con disabilità funzionali e cognitive e che comunque convivono con un rischio più alto di avere una ricaduta, rispetto al resto della popolazione - prosegue Monti -. Oltre a una ridotta mobilità, si registrano più di frequente sintomi quali l'ansia, la depressione e il disturbo post-traumatico da stress. Un paziente su tre non è ancora autonomo a sei mesi dalla dimissione, mentre meno di un paziente su due impiegato prima della sepsi riprende a lavorare nell'anno successivo». Il quadro risulta più complesso quando a superare la sepsi è un paziente che comunque convive con un'altra malattia cronica (come l'insufficienza cardiaca o renale) o con dei fattori di rischio (ipertensione) che lo portano comunque a seguire con costanza una terapia farmacologica.
VERSO UN APPROCCIO PERSONALIZZATO
La sepsi, per dirla con le parole della specialista, «è come se scardinasse le precedenti condizioni presenti nell'individuo». Motivo per cui occorre rimodulare le terapie: col contributo congiunto dell'internista che firma le dimissioni dall'ospedale, del medico di base e dello specialista di riferimento che aveva già in carico il paziente. «Nei prossimi anni dovremo mettere a punto dei percorsi ad hoc per questi pazienti e andare oltre quello che è già garantito oggi: ovvero la riabilitazione specifica per l'organo o gli organi danneggiati». L'idea è quella di giungere a «trattamenti di precisione, che permettano a ciascun paziente settico di essere valutato e trattato in maniera personalizzata - aggiunge Abele Donati, dirigente medico degli Ospedali Riuniti di Ancona -. Visti i tassi di mortalità e le conseguenze sulla salute, al cospetto della sepsi occorre impegnarsi come contro l'infarto o l'ictus». Un appello rivolto a chi maneggia i cordoni della borsa come ai medici, dal momento che in molti di loro manca una piena consapevolezza di quelli che sono i rischi a cui va incontro il paziente settico.
Fonti
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).