Dall'età di sei anni ho dovuto fare controlli costanti e convivere con ematomi. Colpa di una rara malattia del sangue che provoca un calo drastico e pericoloso delle piastrine
Io e la mia malattia abbiamo più o meno la stessa età, lei è comparsa quando avevo solo sei anni. Me lo ricordo bene quel giorno, anche se ora sono passati più di 30 anni. Fino ad allora la mia era stata una vita assolutamente normale, ero una bambina vivace: correvo, saltavo, giocavo. E a volte cadevo, come tutti. Tanto che i miei genitori non si erano mai preoccupati per i lividi che avevo sulle gambe e sulle braccia, giudicati normale conseguenza dei capitomboli dalla bicicletta o dall’altalena. Poi, una mattina mi sveglio e non riesco più a parlare: le gengive gonfie, la bocca piena di sangue. Mamma e papà mi portano di corsa all’ospedale.
Gli esami rilevano un calo delle piastrine, con una lieve alterazione dei valori dei globuli bianchi. La prima ipotesi ci fa tremare, leucemia. Mi sottopongono a una biopsia del midollo e la paura si attenua, anche se quello che i medici dicono ai miei genitori non è certo rassicurante: potrebbe trattarsi di piastrinopenia. A Rovigo l’ospedale è piccolo, non sono attrezzati e ci consigliano di approfondire la cosa a Ferrara, dove mi fanno una nuova biopsia ma il referto non cambia. «E’ ITP – spiegano i medici -: porpora trombocitopenica idiomatica, una rara malattia del sangue che provoca un calo drastico delle piastrine».
Un’adolescenza «segnata» - Per me allora non significava nulla a parte tutti quei lividi che vedevo sulle braccia, sulle gambe, perfino sui talloni. Mi è sempre piaciuto ballare, per anni ho fatto danza alla faccia di quelle macchioline bluastre che comparivano un po’ ovunque e, a volte, del sangue dal naso. Solo quando sono diventata più grande ho iniziato a sentirmi una «bambola di cristallo»: mi guardavo allo specchio e vedevo ematomi ovunque senza capire perché comparissero. Mi chiedevo: «Ma dove ho picchiato?» e mi arrabbiavo, perché non ricordavo alcun trauma. Era un continuo passare dalle crisi di pianto alla vergogna. Andavo al mare con gli amici ed era impossibile non accorgersi come guardavano i miei lividi.
Il difficile rapporto con il cortisone - Avere un figlio è sempre stato il mio sogno e quando mi sono sposata, ne ho parlato con l’ematologo per sapere se avrei potuto un giorno portare avanti una gravidanza normale. Per farlo ho dovuto iniziare ad assumere dei derivati del cortisone e altri farmaci, pappe piastriniche ed immunoglobuline. Tutto è andato bene, ma dopo il parto i valori delle piastrine crollati: la mia bambina è andata a casa e io sono rimasta a piangere in ospedale. Anche con le terapie il mio corpo era fragile, avevo continue perdite di sangue perché il taglio del parto cesareo non si rimarginava e soprattutto mi sentivo sempre stanca. Anche a mesi di distanza avevo un forte dolore alle ossa legato proprio al cortisone. Quando poi avevo bisogno di dosaggi più elevati del farmaco ero iperattiva, non riuscivo a dormire. A un certo punto ho detto basta, ma sapevo bene qual era l’unica alternativa possibile: sottopormi a splenectomia, l’asportazione della milza.
Uno studio clinico può cambiare la vita - Nel 2007 ero in attesa dell’intervento quando mi arriva la chiamata dall’ospedale di Padova, dove sono in cura, ma non è per l’operazione. Mi propongono di entrare in un protocollo di ricerca con un nuovo farmaco (eltrombopag) in sperimentazione. Dopo una settimana di terapia faccio i primi controlli e non credo ai miei occhi: il “buchino” fatto dall’ago per il prelievo di sangue si chiude quasi immediatamente (non era mai successo). Quando mi portano i risultati degli esami vado a cercare l’asterisco che indica i valori delle piastrine fuori dalla norma: non c’è e io mi metto a piangere. Al controllo della seconda settimana le piastrine sono alte, un vero record. Posso eliminare il derivato del cortisone e oggi, a quattro anni di distanza, continuo con la terapia a dosaggio minimo, senza più lividi. Nemmeno se sbatto in qualche spigolo quando faccio le pulizie.
Conchita Schibuola, rappresentante Associazione italiana porpora trombocitopenica idiopatica (Aipit)
Una nuova cura per le «bambole di cristallo»