L’infezione ha effetti anche sul sistema cardiovascolare. Ecco perché c’è chi vuole inserire la malattia tra i fattori di rischio per infarti e ictus
Chi l’ha detto che l’epatite C è una malattia esclusiva del fegato? Pur colpendo principalmente quest’organo, a differenza di quanto si possa pensare, la malattia è sistemica e con il passare del tempo può aumentare il rischio di sviluppare infarti e ictus. Ecco perché, secondo quanto emerge dall’International Liver Congress conclusosi pochi giorni fa a Vienna, l’idea è quella di inserire l’epatite tra i fattori di rischio cardiovascolare.
NON SOLO FEGATO
L’epatite C è una malattia del fegato causata dal virus HCV. La sua presenza è in grado di scatenare una reazione immunitaria che, a lungo termine, danneggia in maniera irreversibile l’organo portando a cirrosi e carcinoma epatico. Una malattia subdola, spesso silente, che in Italia colpisce più di 800 mila persone. Un numero importante frutto delle infezioni contratte principalmente negli anni '70 e '80. «Pur colpendo principalmente il fegato - spiega la professoressa Gloria Taliani, esperta in Malattie Infettive alla Sapienza Università di Roma - l’epatite C è una malattia sistemica a tutti gli effetti. Chi ne soffre con il tempo va incontro a diabete, insufficienza renale e malattie cardiovascolari».
AUMENTA L’INFIAMMAZIONE
Un legame, quello con le altre patologie, in gran parte dovuto ad una iper-attivazione del sistema immunitario in risposta alla presenza dei virus. Purtroppo però, essendo l’epatite C una malattia silente, accade che quest’infiammazione generalizzata perduri per diversi anni danneggiando così –oltre al fegato- reni e sistema cardiovascolare.
In particolare i danni del virus su quest’ultimo sembrerebbero aumentare il rischio di ictus e infarti. L’associazione è stata scoperta intorno alla fine del 2009 e sempre più numerosi studi sembrano confermare il legame. Ultimo in ordine di tempo è quello presentato a Vienna dagli scienziati della Howard University di Washington (Stati Uniti).
EPATITE COME FATTORE DI RISCHIO
Dai dati presentati, frutto dell’analisi dei registri degli eventi cardiovascolari del 2011 negli Stati Uniti, emerge chiaramente che le persone affette da epatite C hanno una probabilità doppia di sviluppare infarti e ictus.
Non solo, dai dati emerge che i costi associati a questi eventi sono maggiori rispetto a quanto speso per chi non è positivo al virus. Come spiegano gli autori «questi risultati indicano chiaramente la stretta associazione tra virus e malattie cardiache. Ecco perché l’epatite C deve entrare di diritto tra i fattori di rischio cardiovascolare».
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I FARMACI FUNZIONANO
Sino ad oggi la terapia classica per la malattia aveva un tasso di successo pari al 50%. Un buon risultato se si considera che solo 30 anni fa solo il 5% dei pazienti rispondeva ai farmaci. Da alcuni anni sono state sviluppate diverse combinazioni di farmaci, senza l'utilizzo di interferone (causa di pesanti effetti collaterali), capaci di agire sui differenti meccanismi.
Grazie a questo approccio le diverse molecole sviluppate sono riuscite ad eradicare definitivamente il virus, generalmente in 3 settimane, in oltre il 90% dei casi. Una vera rivoluzione che consentirebbe a molti di evitare cirrosi, tumore e, nei casi più fortunati, il trapianto. Purtroppo però, pur essendoci una soluzione, non tutti i malati possono accedere alle terapie. Il vero limite infatti è rappresentato dai costi: «Oggi sono circa 400 mila le persone con infezione cronica da virus dell’epatite C candidabili ad un trattamento - sottolinea Antonio Craxì, Professore di Gastroenterologia all’Università di Palermo -. Tra questi almeno 50-60 mila hanno urgente bisogno di essere trattati per lo stadio avanzato.
Questo bisogno pressante si scontra però con una rilevante disomogeneità nell’accesso alle cure da Regione a Regione». Eppure i costi associati alla malattia e all’eventuale trapianto superano abbondantemente l’investimento fatto per curare questi malati. Una visione miope riassunta dalle emblematiche parole di Craxì: «è come incominciare a trattare le persone con gli anti-ipertensivi solo dopo il primo evento cardiovascolare».
Daniele Banfi
Giornalista professionista del Magazine di Fondazione Umberto Veronesi dal 2011. Laureato in Biologia presso l'Università Bicocca di Milano - con specializzazione in Genetica conseguita presso l'Università Diderot di Parigi - ha un master in Comunicazione della Scienza ottenuto presso l'Università La Sapienza di Roma. In questi anni ha seguito i principali congressi mondiali di medicina (ASCO, ESMO, EASL, AASLD, CROI, ESC, ADA, EASD, EHA). Tra le tante tematiche approfondite ha raccontato l’avvento dell’immunoterapia quale nuova modalità per la cura del cancro, la nascita dei nuovi antivirali contro il virus dell’epatite C, la rivoluzione dei trattamenti per l’ictus tramite la chirurgia endovascolare e la nascita delle nuove terapie a lunga durata d’azione per HIV. Dal 2020 ha inoltre contribuito al racconto della pandemia Covid-19 approfondendo in particolare l'iter che ha portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA. Collabora con diverse testate nazionali.