Giulio Sandini, bioingegnere, ha realizzato un robot umanoide, prodigio delle nanotecnologie, in grado di comprendere le interazioni tra cervello e macchina
Giulio Sandini, bioingegnere, ha realizzato un robot umanoide, prodigio delle nanotecnologie, in grado di comprendere le interazioni tra cervello e macchina
Giulio Sandini è nato a Correggio, in provincia di Reggio Emilia, nel 1950. Si è laureato «summa cum laude» all’Università di Genova in ingegneria elettronica e bioingegneria. E’ Direttore del Dipartimento di Robotica, Scienze Cognitive e del Cervello dell’ Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, ed è docente di bioingegneria all’Università di Genova. Dopo quattro anni (1976-80) al Cnr e alla Scuola Normale superiore di Pisa, che definisce fondamentali («Lì ho imparato le relazioni tra il biologico e l’artificiale»), ha avuto varie esperienze di lavoro negli Stati Uniti: all’Università di Harvard, al Children’s Hospital di Boston, al famoso Massachusetts Institute of Technology, occupandosi di neurologia e d’intelligenze artificiali, in particolare dei robot «umanoidi». Ha fatto parte dell’Agenzia Spaziale Italiana e della Commissione Europea per il futuro delle tecnologie emergenti.
Professor Sandini, lei è noto come il papà del “cucciolo di robot” RobotCub, che è stato anche replicato e che viaggia per i centri di ricerca del mondo. E’ un robot umanoide . Come l’avete concepito, e che cosa volete studiare?
L’idea era quella di dare una mano a capire alcuni aspetti del cervello, quindi le interazioni («intelligenza sociale») tra esseri umani e macchine. RobotCub, nato nel 2005, ha la taglia di un bimbo di due anni, e la sua intelligenza continua a svilupparsi, perché è in grado di imparare. Tramite il nostro bimbo-robot, noi studiamo il percorso attraverso il quale si sviluppa il cervello. Per esempio, quando un bambino (l’età è quella di anno e mezzo) impara ad incastrare blocchetti di varie forme, il suo cervello impara a riconoscere la forma degli oggetti, e impara i movimenti giusti per afferrarli. Nel Centro Politecnico di Losanna utilizzano RobotCub per studiare la capacità di apprendere per imitazione.
In che modo le nanotecnologie hanno favorito la nascita di RobotCub?
Dato che permettono di lavorare sull’infinitamente piccolo, potenziano al massimo tutta la parte informatica. Il nostro piccolo robot ha 53 motori, tanti calcolatori, un’enorme capacità ottica.
Se un robot dovesse interagire con gli esseri umani, sarebbe in grado di riconoscerne le emozioni?
Già ci sono sistemi che permettono a un robot di riconoscere alcuni «segni», sulla base di eventi esterni: il movimento della bocca nel sorriso o nel pianto, i movimenti degli occhi, perfino la forma che assume il volto. La cosa complicata non è questa parte per così dire meccanica, ma la situazione in cui la persona si trova, cioè l’insieme dei parametri che ci sono intorno. Noi pensiamo di arrivare a robot umanoidi che siano degli «aiutanti», ma dobbiamo risolvere un problema: la difficoltà non è quella di imparare, ma quella di essere in grado di «mettersi nei panni degli altri». Edi, il piccolo robot che nel fumetto di Disney fa il garzone di Archimede Pitagorico, aiuta validamente il suo capo perché capisce di che cosa ha bisogno in quel momento. Un robot-infermiere, per esempio, dovrebbe capire che deve porgere al paziente un bicchier d’acqua.
Professor Sandini, è nato prima l’uovo o la gallina? Nel senso che avete creato RobotCub per studiare il cervello umano o piuttosto avete studiato il cervello umano per creare RobotCub?
La risposta è biunivoca. Non sappiamo come molte cose avvengano nel cervello. Per esempio (e sarà un prossimo filone delle nostre ricerche) probabilmente il nostro cervello non fa operazioni aritmetiche come il calcolatore. Studiando l’intelligenza artificiale possiamo saperne di più. Ogni mese, RobotCub impara qualcosa in più, anzi qualcosa di diverso. Se faccio un rumore, si volta. Se lo spingo, si bilancia. Ha imparato ad afferrare una pallina rossa. La sua intelligenza è in sviluppo, proprio come quella di un bambino. Ed è il «nostro» baby-robot, è cresciuto con noi. I suoi gemelli che viaggiano per il mondo hanno imparato altre cose, sono diversi da lui, anche se l’hardware è identico
Se sostituiamo la parola “programma” alla parola “coscienza”, sarebbe giusto programmare per i robot qualche valore assoluto, come per esempio il comandamento “non uccidere”? E se però l’azione di uccidere un uomo salva la vita a molti? Una nuova disciplina, la roboetica, si sta interrogando. Lei che cosa ne pensa?
Ricordiamo le tre famose leggi etiche di Isaac Asimov, lo scrittore di fantascienza: «1) Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno; 2) Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge; 3) Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda legge.»
Come si fa a dare al robot questo programma-coscienza?
E’ molto complesso, perché bisogna dotarlo della capacità di prevedere gli effetti di un’azione. Questa capacità è una parte fondamentale della dimensione etica. Il bimbo umano passa i primi due anni di vita a sperimentare il mondo, a vedere che effetto hanno le sue azioni, e cerca di capire i limiti di queste azioni. Una bastonata è una cosa, una carezza è un’altra.
Antonella Cremonese