Spazi e attività ludiche aiutano a controllare paura, dolore, angoscia. E a elaborare nel modo più positivo possibile un’esperienza che segna per la vita
È un luogo particolare: centralizzato, costituto da pareti integralmente in vetro in modo da creare un filtro protettivo con l’esterno senza tuttavia isolare da esso, in cui la luce può entrare appieno o essere oscurata quando necessario. Un ambiente colorato da giochi, barattoli di tempera, carte variopinte e soprattutto popolato da oggetti, disegni e creazioni fantasiose apposte su scaffali, fissate a pannelli a parete e appese su quei muri trasparenti. Tutte rigorosamente realizzate da bambini. È concepita così la ludoteca dell’Ospedale Pediatrico del Bambino Gesù a Roma che accoglie nei propri spazi, ogni anno, all’incirca 22mila piccoli, provenienti dai vari reparti, affetti da malattie generali, croniche fino alle oncologiche, ma aperto anche a fratellini e famigliari.
IL GIOCO CONTRO IL DOLORE – E’ parte integrante della terapia: forse la prima tappa che prepara il bambino a conoscere, familiarizzarsi con la malattia, con le procedure e con quanto lo sta aspettando. Ma in maniera più ‘lieve’, con il gioco, che costella il vissuto più felice di ogni piccola creatura. «Li avviciniamo al problema – spiega la dottoressa Carla Carlevaris, psicologa e responsabile della ludoteca dell’Ospedale della Santa Sede – ad esempio attraverso il gioco sulle bambole per fare capire loro come avverrà una fasciatura, una ingessatura o un intervento, oppure utilizziamo dei video, come ‘Anestesio’, nei quali in modo fantasioso e adatto alla loro età, si racconta cosa sta per succedere mostrando loro anche luoghi e oggetti». Che poi i bambini possono toccare con mano per esorcizzare la paura: come siringhe senz’ago da cui sprizzano i colori, le garze con cui fare un collage, una cuffietta con la quale costruire un personaggio.
IL GIOCO CONTRO LA PAURA - Ma la paura è una esperienza molto personale, vissuta in maniera diversa da bambino a bambino e non dipendente dall’entità della terapia o del trattamento. «Un bambino che entra in ospedale per un piccolo intervento - aggiunge la psicologa - può essere più traumatizzato di un altro con una patologia cronica. Questo insegna che occorre prestare ascolto a quanto il bambino vive e a gestire anche lo stress sperimentato da mamma e papà o dai fratellini che anch’essi arrivano in ludoteca, non essendo consentito loro l’accesso in reparto».
L’ESPERIENZA CHE SEGNA UNA VITA - Qui si ritrovano tutti, bambini in attesa di visita ambulatoriale o di day hospital e piccoli ricoverati: l’approccio e il percorso che ciascuno di loro richiederà sarà differente, ma per tutti vi è un unico denominatore comune: l’esperienza in ospedale deve essere vissuta nel modo più positivo possibile. «Questo perché - commenta ancora la dottoressa Carlevaris - nella fase di sviluppo tutte le esperienze diventano memoria sensoriale, psichica e emozionale che riemerge anche a distanza di tempo quando il bambino si ritroverà a vivere situazioni che abbiano caratteristiche analoghe». Non è ancora possibile riferire dati scientifici sul valore terapeutico del gioco (perché al riguardo non sono stati fatti studi ad hoc) ma esperienze osservazionali lo confermano. «Questionari proposti qualche anno fa a genitori, bambini e personale sanitario – dichiara la psicologa – hanno confermato una maggiore compliance da parte dei bambini. Ovvero con l’apertura di questo servizio e spazio gioco i bambini vengono in ospedale più volentieri, si sottopongono alle cure e alle terapie più velocemente non solo per scendere poi a giocare in ludoteca dove fanno cose un po’ speciali ma anche perché il riavvicinarsi a quei meccanismi mentali di elaborazione dell’esperienza che tendono a bloccarsi sotto stress, li aiuta ad attraversare e vivere meglio questi momenti correlati alla malattia. Anche in situazioni importanti come una chemioterapia in cui l’ingresso del gioco in reparto ha diminuito il rifiuto verso il trattamento, ma anche la nausea e altri effetti collaterali o l’abbandono, da parte del bambino, del senso di vergogna per la malattia, sentendosi libero di raccontare a maestre e compagni di classe il motivo per il quale si assenta da scuola e fa cose un po’ speciali in ludoteca».
A CIASCUNO IL SUO TEMPO - La malattia, anche nel bambino, non va ‘messa da parte’: minimizzala o tentare di fargliela dimenticare, contribuisce solo a isolarlo nelle sue fantasie e preoccupazioni. Va percepita e accolta con i tempi e le modalità del bambino che sceglie cosa, quando e quanto vuole comunicare. «Il nostro compito – precisa ancora la psicologa – è quello di metterlo nelle condizioni di poterlo fare, restituendogli cioè il senso di sicurezza che spesso si perde durante la malattia e quindi stabilizzarlo. Ovvero creare delle relazioni di fiducia in cui il bambino senta che non ci sono pressioni ma delle persone affidabili e che il mondo, il quale un attimo prima era in un certo modo e che si è totalmente trasformato, può tornare ad essere un luogo sicuro». Sapendo cogliere non solo le parole, ma anche tutti quei segnali non verbali altrettanto preziosi: perché ci sono bambini che raccontano, altri che si esprimono simbolicamente attraverso forme e colori, ancora altri che narrano storie che apparentemente non hanno nulla a che vedere con loro ma che invece nascondono elementi di sé. «Come nei bimbi così piccoli da non essere in grado di parlare – conclude la Carlevaris – ma che raccontano la loro paura con l’agitazione fisica, la disorganizzazione del movimento, segno dell’immensa tensione e energia accumulata che si portano nel cuore».
Francesca Morelli