Per i bambini e i ragazzi guariti il diritto all'oblio oncologico è ancora più rilevante. Come tutelarlo, insieme al bisogno di raccontarsi nell'era di internet? L'opinione degli esperti
La legge sull’oblio oncologico, fortemente voluta da ex pazienti e associazioni scientifiche, è stata recentemente approvata. Si tratta, in sostanza, del diritto di non fare menzione dell’esperienza di malattia quando il tempo trascorso e le condizioni di salute la rendono non più rilevante. E se la normativa è fondamentale per la tutela degli adulti e per evitare lo stigma, ancora più delicata e rilevante è la questione quando di mezzo ci sono bambini e ragazzi.
TRA IL DESIDERIO DI RACCONTARSI E QUELLO DI CHIUDERE CON UN PASSATO DOLOROSO
L’obiettivo della legge sull'oblio oncologico è quello di tutelare la dignità delle persone ed evitare discriminazioni per quanto concerne, ad esempio, l’accesso ai servizi finanziari e assicurativi. Concretamente significa non dover citare una pregressa malattia oncologica dopo un lasso di tempo di dieci anni dal termine delle cure attive per quanto riguarda gli adulti e cinque anni se la diagnosi è arrivata prima dei 21 anni d’età, e senza che si siano verificati episodi di recidiva.
Ma come si rapportano alla propria storia di tumore i bambini o ragazzi guariti? «L’esperienza della malattia non solo è in sé estremamente soggettiva - testimonia Momcilo Jankovic, pediatra emato-oncologo, Clinica Pediatrica Università Milano-Bicocca e tra i soci fondatori della Società Italiana di Psicologia Pediatrica (S.I.P. Ped.) - ma è anche molto personale il desiderio di raccontarla o ometterla in parte o totalmente dalla propria vita, considerandola una parentesi temporale conclusa. L’ho appurato nel corso di decenni a contatto con i numerosissimi bambini e adolescenti oncologici che ho curato, privilegiando, oltre all’aspetto strettamente medico anche quello psicologico imprescindibile della comunicazione, a cominciare dal momento stesso della diagnosi. E questa comprensibile varietà nell’approccio individuale è anche ciò che sta emergendo da uno studio in corso promosso da S.I.P. Ped. e AIEOP (Associazione Italiana di Ematologia e Oncologia Pediatrica). Sono stati somministrati questionari a bimbi e ragazzi in cura, per ora circa una cinquantina, con lo scopo di valutare in occasione del reintegro nella scuola di origine durante il percorso di cura o a guarigione avvenuta, la propria volontà circa la narrazione della storia di malattia. Da quanto emerso fino a questo momento, poco meno del 50% non vuole affatto nominarla e si appella al desiderio di rinchiuderla in un ambito intimo. Poi ovviamente sono possibili tutte le declinazioni che vanno dal rifiuto di parlare di eventi dolorosi al bisogno di raccontare apertamente la propria esperienza. Il desiderio soggettivo è dunque molto vario e deve essere rispettato in tutte le sue sfumature, sostenendo con delicatezza e attenzione una comunicazione efficace e comprendendo chi vuole andare oltre la malattia non menzionandola più».
I RAGAZZI VANNO ACCOMPAGNATI E TUTELATI
«C’è un aspetto che mi colpisce molto pensando ai bambini e ragazzi malati di tumore che incontro quotidianamente - afferma Andrea Ferrari, pediatra oncologo, responsabile del Progetto Giovani dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e membro del Comitato scientifico di Fondazione Veronesi - ossia la contrapposizione tra il desiderio di raccontarsi, oltre che individualmente sui social, anche tramite progetti creativi e artistici condivisi straordinari e il diritto (sacrosanto) all’oblio. Per molti ragazzi il sapersi raccontare e imparare a farlo costituiscono strumenti indispensabili per tirare fuori il proprio dolore, per elaborarlo, per lenire le proprie ferite. È un modo per affrontare meglio la malattia, il percorso di cura e anche il seguito. Però c’è anche il diritto all’oblio che ha portato a una definizione normativa importantissima per evitare stigmi e ripercussioni pratiche sulla vita quotidiana, dall’assicurazione al colloquio di lavoro. Ma come si regola questo ossimoro tra il salvifico (per alcuni) bisogno di raccontarsi e il diritto a non essere identificati in futuro con la propria malattia quando la rete serba una memoria incancellabile? Come gestire narrazione e protezione, bisogno di condividere e approccio sensibile che non determini svantaggi futuri?». E’ una sfida, un aspetto imprescindibile in un mondo che sta cambiando in maniera vorticosa, ma in cui la memoria paradossalmente, complice internet, diventa un macigno da cui è sempre più difficile sganciarsi. Quello che è stato postato sui social resta lì e a prescindere dalla Legge (imprescindibile). Chi potrà mai assicuraci però che quel ragazzo guarito (7, 8 su 10 oramai) non sia stato assunto perché sbirciando su Facebook il potenziale datore di lavoro abbia optato per un altro candidato? Sappiamo che la possibilità di aggirare le norme legislative esiste in vari ambiti, ma come tutelare la salute dei nostri ragazzi che già hanno molto sofferto?
Paola Scaccabarozzi
Giornalista professionista. Laureata in Lettere Moderne all'Università Statale di Milano, con specializzazione all'Università Cattolica in Materie Umanistiche, ha seguito corsi di giornalismo medico scientifico e giornalismo di inchiesta accreditati dall'Ordine Giornalisti della Lombardia. Ha scritto: Quando un figlio si ammala e, con Claudio Mencacci, Viaggio nella depressione, editi da Franco Angeli. Collabora con diverse testate nazionali ed estere.