Lo Iarc lo considera «probabile cancerogeno per l’uomo», l’Efsa si oppone. In Italia il monitoraggio viene condotto soltanto in Lombardia. Sul glifosato la Commissione Europea è chiamata a decidere entro l’estate
Da diverse settimane tutti i giornali parlano del glifosato, un diserbante non selettivo che oggi risulta utilizzato in 140 Paesi nel mondo, compresa tutta l’Europa. Prima l’allarme scattato in Germania per la sua rilevazione - da parte dell’Istituto per l’ambiente di Monaco - all’interno di 14 marche di birra oltre il livello di 0,1 microgrammi, limite consentito dalla legge per l’acqua potabile. Poi la notizia della «battaglia» politica in corso a Bruxelles, dove la Commissione Europea è chiamata a decidere entro giugno sul rinnovo dell’autorizzazione all’uso del glifosato nel Vecchio Continente per altri quindici anni . Ma perché c’è tanto interesse attorno a questo diserbante? Cerchiamo di fare chiarezza.
Cos’è il glifosato?
Il glifosato è un diserbante sistemico e viene definito «totale», ovvero non in grado di agire in maniera selettiva. L’assorbimento avviene a livello fogliare, ma nell’arco di sei ore l’erbicida risulta diffuso in tutta la pianta. Il disseccamento si registra in poco meno di due settimane ed è dovuto all’azione chelante del glifosato, in grado di sottrarre alcuni micronutrienti (ferro, magnesio) cruciali per la vita e lo sviluppo delle piante.
Da quanto tempo si usa il glifosato?
L'uso del glifosato in agricoltura è stato autorizzato per la prima volta negli anni settanta ed è oggi diffuso in oltre 140 Paesi nel mondo. Ad agevolarne la diffusione nei primi anni, in un periodo in cui si iniziavano a scoprire le conseguenze legate all’uso dei pesticidi, la ridotta tossicità e la scarsa capacità di penetrare nel suolo. L’utilizzo del glifosato è cresciuto negli anni - 127mila le tonnellate usate nel 2012 nei campi degli Stati Uniti - con la diffusione di coltivazioni di piante Ogm (organismi geneticamente modificati). L’introduzione di specie vegetali resistenti al glifosato (soia, mais e cotone) ha permesso ai coltivatori di utilizzare l’erbicida su queste piante senza danneggiare i raccolti. Nel 2011 è scaduto il brevetto in possesso della Monsanto, prima multinazionale a produrre il glifosato. Oggi sarebbero 750 i prodotti in commercio a base di questo erbicida, le cui tracce, come documenta la recente notizia giunta dalla Germania, possono essere ritrovate nel terreno, negli alimenti, nell’aria e nell’acqua. Nel mondo si stima che il mercato del glifosato ammonti a 5,4 miliardi di dollari.
Quali sono i rischi noti per la salute legati all’esposizione al glifosato?
Lo scorso anno l’Agenzia per la Ricerca sul Cancro, il braccio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che si occupa dell’ambito oncologico, ha catalogato il glifosato come un «probabile cancerogeno per l’uomo» e come tale lo ha inserito nel gruppo 2A (66 sostanze e fattori di rischio, tra cui l’acrilamide e le carni rosse, il bitume, i fumi da combustione di legna, da frittura ad alte temperature, gli anabolizzanti, l’esposizione occupazionale per i parrucchieri, il lavoro notturno). Il giudizio, espresso da 17 esperti, rientra nella rivalutazione di questi composti in corso da quattro anni ed è giunto dopo una revisione degli studi che consideravano l’esposizione di uomini e modelli animali al glifosato (puro o in un mix con altre sostanze). Per gli studi condotti sul composto «puro», la monografia - pubblicata anche su The Lancet Oncology - ha concluso che «le prove che l’erbicida causi il cancro negli animali sono sufficienti», mentre sono «forti quelle riguardanti la genotossicità» del prodotto. Finora l’esposizione ai pesticidi era risultata correlata a un aumento dei casi di leucemie infantili e malattie neurodegenerative, Parkinson in testa. Dal nuovo documento emerge invece una forte correlazione epidemiologica tra l’impiego del glifosato (riscontrato anche nel sangue e nelle urine degli agricoltori) e il linfoma non-Hodgkin. Il parere, vista anche la fonte, ha riaperto la discussione all’interno della comunità scientifica. Già nel 1985 l’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente indicò il glifosato come possibile cancerogeno umano, dopo averne testato gli effetti sui ratti e aver raccolto prove anche in Canada e in Svezia. Salvo poi però cambiare idea sei anni più tardi, asserendo che «il glifosato non ha dimostrato potenzialità cancerogene in almeno due studi su animali, condotti in modo adeguato su specie diverse, o sia in studi animali sia epidemiologici».
Cosa vuol dire che una sostanza è probabilmente cancerogena per l’uomo?
Questa categoria (2A) viene utilizzata quando c’è limitata evidenza di cancerogenicità nell’uomo, sufficiente evidenza nell’animale da esperimentoe forte evidenza che il meccanismo di cancerogenesi osservato negli animali valga anche per l’uomo. Altre categorie di valutazione del rischio comprendono le sostanze sicuramente cancerogene per l’uomo (gruppo 1), le sostanze possibilmente cancerogene (2B), le sostanze non classificabili in relazione alla loro cancerogenicità per l’uomo (gruppo 3) e quelle probabilmente non cancerogene per l’uomo (gruppo 4).
Qual è il limite delle conclusioni tratte dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro?
Il limite è lo stesso che condividono tutti gli studi epidemiologici, dalle cui conclusioni si associa la presenza di una malattia in una determinata area all’esposizione a un composto (in questo caso il glifosato). In questo caso manca però un nesso assolutamente sicuro di causa-effetto.
Cosa dice l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa) sulla questione glifosato?
Secondo l’Efsa, l’organo di consulenza scientifica della Commissione Europea in materia di rischi associati alla catena alimentare, «è improbabile che il glifosato costituisca un pericolo di cancerogenicità per l'uomo». Il parere - come quello diffuso poche settimane prima dall’Istituto federale tedesco per la valutazione del rischio (Bfr) - è dunque opposto a quello dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (e dunque dall’Organizzazione Mondiale della Sanità), anche se l’agenzia ha chiesto alla Commissione Europea di rendere più severo il controllo dei residui di glifosato negli alimenti. Per la prima volta l’Efsa ha stabilito una dose acuta di riferimento (DAR) per il glifosato pari a 0,5 milligrammi per chilo di peso corporeo. Con essa si intende «il quantitativo stimato di una sostanza chimica in un alimento, espressa in rapporto al peso corporeo, che può essere ingerito nell’arco di un breve lasso di tempo, di solito un pasto o un giorno, senza comportare rischi per la salute».
Quanto è utilizzato il glifosato in Italia?
La Lombardia è l’unica Regione a presentare i dati sul monitoraggio del glifosato nelle acque (laghi e fiumi). Rileggendo l’ultimo rapporto nazionale pesticidi nelle acque dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), «la presenza del glifosato e del suo metabolita, l’acido aminometilfosfonico, è ampiamente confermata. In Lombardia, dove la sostanza è presente nel 31,8% dei punti di monitoraggio delle acque superficiali, mentre il metabolita nel 56,6%». L’erbicida è dunque largamente impiegato e se fosse monitorato ovunque allo stesso modo l’aumento dei casi di non conformità sarebbe molto probabile.
Qual è la posizione del governo italiano in merito alla vicenda glifosato?
In Italia l’erbicida è utilizzato da più di trent’anni, ma di recente i ministri della Salute (Beatrice Lorenzin), delle politiche agricole (Maurizio Martina) e dell’ambiente (Gian Luca Galletti) hanno richiesto - assieme a 34 associazioni e col sostegno della Francia e dall’Olanda - alla Commissione Europea di vietare l’utilizzo del glifosato in agricoltura. Più prudenti si stanno dimostrando le associazioni di categoria, Coldiretti e Confagricoltura. La prima chiede che il divieto sia eventualmente esteso anche a prodotti alimentari che giungono da altri continenti, mentre la seconda attenderebbe ulteriori riscontri scientifici prima di assumere una decisione che rischia di danneggiare i produttori e l’ambiente.
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Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).