Umberto Veronesi fu tra i primi a porsi questa domanda. Da anni si registrano un calo della mortalità e l'aumento della sopravvivenza legata ai tumori
Al termine del 2020, secondo le stime ufficiali, saranno 377mila le persone che hanno scoperto di essersi ammalate di cancro negli ultimi 12 mesi. Un dato in crescita, che è però accompagnato da un'altra (più incoraggiante) curva in ascesa: quella rappresentata da uomini e donne che hanno superato la malattia e da coloro che possono considerarsi a tutti gli effetti guariti. Merito dei ottenuti nella diagnosi e nei trattamenti.
Nel primo caso, si parla di circa 3.6 milioni di persone: oltre un terzo rispetto alle stesse che si conteggiavano nel 2010. I lungosopravviventi - coloro che, avendo superato la malattia da oltre cinque anni, sono tornati ad avere la stessa aspettativa di vita della popolazione generale - sono invece quasi un milione. Nelle donne, la sopravvivenza a cinque anni raggiunge il 63 per cento (vuol dire che più di 6 donne su 10 superano la malattia). Mentre è più bassa tra gli uomini (54 per cento). Da queste statistiche - che viaggiano a braccetto con la riduzione dei tassi di mortalità: del 6 (uomini) e del 4.2 per cento (donne) rispetto al 2015 - scaturisce la domanda che abbiamo racchiuso nel titolo.
È giusto definire (ancora) il cancro un male incurabile? L'interrogativo è tornato di attualità nelle ultime ore, in seguito alla morte dell'ex calciatore Paolo Rossi. E ha riaperto un dibattito mai del tutto superato nell'opinione pubblica. Ma che in realtà non appartiene più al mondo scientifico, almeno da un decennio.
Su questo tema, riproponiamo la risposta di Umberto Veronesi a una lettera giunta in seguito alla morte di Oriana Fallaci. I testi sono stati ripresi dal forum di Sportello Cancro, sul sito del Corriere della Sera.
Egregio professore, non so se lei sia d'accordo con me, ma leggendo un articolo sulla morte della scrittrice Oriana Fallaci, il giornalista inizia così: «FIRENZE - È morta a Firenze questa notte all'1.30 la scrittrice Oriana Fallaci. Aveva 77 anni, era afflitta da alcuni anni da un male incurabile». Trovo decisamente scorretto che si usi ancora questa frase che svilisce il lavoro di medici e ricercatori e prova, ma non riesce, a togliere speranza a chi contro questo male continua a lottare e lo chiama con il suo nome. Ovvero: cancro.
"Cara Sonia, la ringrazio per il suo messaggio che tocca un tema per me fondamentale. Nella mia carriera di oncologo ho più volte toccato con mano che il superamento delle barriere culturali è assolutamente fondamentale per il miglioramento delle condizioni di vita dei malati di tumore. La consapevolezza della gente è infatti fondamentale per il progredire della ricerca.
Quando iniziai la mia carriera di oncologo, il cancro era una malattia che non aveva grandi speranze di guarigione, di fronte alla quale l’atteggiamento - non solo della gente comune, ma anche dei medici - era di rassegnazione e di fatalismo. Il cancro era definito un male incurabile e al di là di questo non si poteva andare. Il malato di tumore e il suo vissuto, nel modo in cui i medici e l’opinione pubblica se li rappresentavano, avevano il marchio del reietto, di qualcosa che non si aveva il coraggio neppure di nominare.
Questa concezione della malattia non è del tutto sradicata dalla mentalità comune. Per questo, ancora oggi, sono molti i malati di cancro che vivono con disperazione la propria condizione, proprio a causa delle barriere culturali che dentro e fuori di loro gli impediscono di reagire. Chi ha un tumore viene ancora visto dalla società come uno che deve morire. Eppure non è più così, le percentuali di guarigione sono sempre più alte.
Fortunatamente ci furono e ci sono persone - anzi, oggi sono sempre di più - che si ribellano a questo senso di ineluttabilità e si impegnano nella lotta alla malattia con la forza d’animo necessaria. Grazie a un coraggioso processo di informazione, negli ultimi dieci o quindici anni si è avuta una prima controtendenza in termini di mortalità. Occorre perseverare nel favorire questo cambiamento culturale: la popolazione deve abbandonare definitivamente i modelli culturali del passato, fatti di rifiuto, negazione, rimozione, fuga, fatalismo che erano frutto della paura e dell’ignoranza delle generazioni precedenti.
Dobbiamo cambiare atteggiamento e diventare positivi, determinati ed essere tutti parte di questo grande progetto di lotta alla malattia, perché conoscendo il nemico lo si combatte meglio.
Umberto Veronesi"
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Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).