Ci sta provando Elisa Giorgio a Torino: grazie a piccole molecole di Rna. Esse riconoscono e spengono la copia in più del gene per la Lamina B, che in eccesso provoca la degenerazione dei neuroni
Ironia, passione, determinazione e competenza: sono le qualità più importanti per un ricercatore, ed Elisa Giorgio, biotecnologa savonese di 33 anni, le possiede tutte. Il suo è un obiettivo ambizioso: sviluppare una terapia per la leucodistrofia autosomica dominante dell’adulto (Adld). Si tratta di una rara malattia genetica neurodegenerativa, fatale e senza cura che insorge tra i 30 e i 50 anni: la progressione è lenta ma in genere il paziente non sopravvive oltre 20 anni dal suo esordio. La leucodistrofia autosomica dominante dell’adulto è caratterizzata da una perdita della sostanza bianca del sistema nervoso centrale - fasci di nervi rivestiti da una guaina, la mielina - e si manifesta con disturbi del movimento e gravi alterazioni del sistema nervoso autonomo tra cui incapacità a mantenere una corretta pressione sanguigna e temperatura corporea, incontinenza e impotenza (nell’uomo). La causa genetica è la presenza di tre copie, anziché le due fisiologiche, del gene per la proteina lamina B1 (LMNB1): questa abbondanza genetica si traduce in un’eccessiva produzione della lamina B1 che si accumula nei neuroni dei pazienti e causa la neurodegenerazione.
Elisa, quali sono gli aspetti innovativi della tua ricerca?
«Il mio progetto rappresenta il primo tentativo di sviluppare una terapia per la leucodistrofia autosomica dominante dell’adulto grazie a una tecnica chiamata silenziamento allele-specifico. L’idea di fondo è quella di “spegnere” una delle tre copie del gene, quella in eccesso, sfruttando piccole molecole di Rna sintetiche, note come siRna, che riconoscono proprio il gene della Lamina B1. Grazie a questa strategia speriamo di riportarne i livelli alla normalità, evitandone quindi l’accumulo e la malattia».
Quali prospettive aprirà la tua ricerca, anche a lungo termine, per i pazienti?
«Il progetto getterà le basi per lo sviluppo della prima opzione terapeutica per la leucodistrofia autosomica dominante dell’adulto. Questa malattia a oggi è incurabile ed i farmaci in uso sono meramente palliativi. Poter offrire una cura ai pazienti sarebbe una rivoluzione. Ma non solo. Se funzionasse, questo approccio di spegnimento genico potrebbe essere applicato anche ad altre malattie genetiche dovute alla presenza di tre copie di un gene, ad esempio nella malattia di Pelizaeus-Merzbacher».
Spesso si dice che la ricerca italiana, nel suo complesso, fa fatica. Qual è per te la ragione?
«La burocrazia deve essere snellita drasticamente in Italia. Non è possibile che per ricevere un reagente in laboratorio passino tre settimane, mentre all’estero un giorno. La tecnologia, la ricerca, il progresso scientifico vanno veloci come il vento. Questo è il principale problema della ricerca italiana, nonostante le nostre idee siano eccellenti ed innovative, rischiamo sempre di essere sorpassati da altri gruppi che sono partiti ben dopo di noi, ma viaggiano su una Ferrari».
Ricordi l’episodio in cui hai capito che la tua strada era quella della scienza?
«Mi sono innamorata della genetica al liceo. Finalmente una scienza mi riusciva a spiegare come mai le mie sorelle sono bionde con gli occhi azzurri e bianche come il latte e io sono, a dir poco, mediterranea. Dopo il liceo, ho deciso di fare biotecnologie mediche ma è stato l’incontro con Silvia Bione dell’Università di Pavia che mi ha convinta di voler fare la ricercatrice».
Un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare.
«Sulla scrivania ho attaccato la mail che mi ha inviato il professor Antonarakis dopo avermi ascoltata nel 2013 durante l’ESHG Conference di Parigi. Quando l’ho ricevuta sono rimasta a bocca aperta. E’ come per un ragazzino che gioca nelle giovanili a calcio, ricevere una mail da Maradona o Pelé. La rileggo nei momenti di depressione».
Qual è la figura che ha ispirato nella tua vita?
«Un mio carissimo amico di infanzia a sei anni ha iniziato ad avere gravi problemi di salute a causa di una rarissima malattia che poteva farlo morire da un momento all’altro. Non sto a raccontare tutte le volte che è stato in rianimazione e che ho avuto paura di non vederlo più, ma ci tengo a dire che quel bambino poi è diventato ragazzo ed ora è uomo, laureato con lode in ingegneria aereospaziale. Da lui ho imparato a vivere a pieno e sfruttare al massimo l’oggi, perché ne vale sempre la pena».
La cosa che ti fa ridere a crepapelle.
«Anacleto, il gufo de “La spada nella roccia”. Mi assomiglia talmente tanto che non posso che ridere di lui per prendere in giro me stessa».
Raccontaci una pazzia che hai fatto?
«Fare una gita in cammello in ballerine firmate e vestito di seta. Ho buttato via vestito e scarpe la sera stessa, avevo una dermatite pazzesca su tutte le gambe, ma mi sono goduta il silenzio del deserto».
Con chi ti piacerebbe andare a cena una sera e cosa ti piacerebbe chiedergli?
«Non ho dubbi: vorrei andare a cena con Jovanotti e chiedergli come mai non ha sposato me».
Qual è il senso profondo che ti spinge a fare ricerca ogni giorno?
«Ritengo le malattie genetiche veramente ingiuste: nasci con una condanna scritta nel Dna, non hai alcun modo per evitarla e sai che la potrai trasmettere ai tuoi figli. Penso sia un flagello enorme per una famiglia. Studiarle nel profondo, dare loro un nome e un cognome per cercare di migliorare la vita dei malati e permettere loro di fare scelte consapevoli: ecco il senso profondo, ultimo, filosofico del mio fare ricerca».
Chiara Segré
Chiara Segré è biologa e dottore di ricerca in oncologia molecolare, con un master in giornalismo e comunicazione della scienza. Ha lavorato otto anni nella ricerca sul cancro e dal 2010 si occupa di divulgazione scientifica. Attualmente è Responsabile della Supervisione Scientifica della Fondazione Umberto Veronesi, oltre che scrittrice di libri per bambini e ragazzi.