Anna Julie Peired, ricercatrice sostenuta da Fondazione Umberto Veronesi, indaga i meccanismi molecolari alla base del tumore del rene
Il tumore del rene colpisce migliaia di persone con circa 400mila nuovi casi ogni anno nel mondo e oltre 175mila decessi. Alcuni fattori di rischio per l’insorgenza di questo tumore sono ben conosciuti, come l’età, il genere (ad essere colpiti sono prevalentemente gli uomini), la presenza di malattie come il diabete o il danno renale cronico.
Studi recenti, tuttavia, hanno evidenziato come anche il danno renale acuto rappresenti una importante fattore di rischio per alcuni pazienti –specialmente in caso di recidiva. Studiare i meccanismi molecolari legati ai danni renali acuti è fondamentale per aumentare le nostre conoscenze in campo medico e farmacologico. Su questi aspetti si concentra il lavoro di Anna Julie Peired, che recentemente è stata autrice primo nome di un articolo, con il quale ha guadagnato la copertina della prestigiosa rivista scientifica Science Translational Medicine (ne abbiamo parlato in esclusiva qui sul nostro Magazine). Il lavoro di Anna, svolto presso l’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze, verrà supportato grazie al sostegno di una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi per tutto il 2020.
Anna, ci siamo lasciati qualche mese dopo la pubblicazione di un tuo importante lavoro sul carcinoma renale: come procedono i vostri studi?
«Nel progetto attuale, così come nei passati, ci siamo concentrati sul carcinoma papillare renale – un sottotipo che rappresenta il 20% di tutte le forme di carcinoma di quest’organo. Grazie ai progetti finanziati da Fondazione Umberto Veronesi negli scorsi anni abbiamo potuto identificare il danno renale acuto come un importante fattore di rischio di progressione del carcinoma renale papillare. Inoltre abbiamo identificato una serie di meccanismi molecolari a catena, conosciuti come via di segnalazione di Notch, come fattore chiave alla base dello sviluppo tumorale. Nello specifico, si tratta di meccanismi legati alla proliferazione di alcune cellule staminali chiamate cellule progenitrici renali».
Perché questa “via di segnalazione” è così importante? Avete delle ipotesi?
«Riteniamo che Notch1, un gene coinvolto in questa via, sia essenziale nello sviluppo del carcinoma perché stimola l’attività delle cellule progenitrici renali e la loro divisione. Nei modelli sperimentali che simulano una condizione di danno acuto, la maggior attività del gene Notch1 nelle cellule progenitrici è correlata allo sviluppo del carcinoma stesso. Questi risultati suggeriscono che le cellule progenitrici renali siano all’origine del tumore e quindi agiscano come cellule staminali tumorali, una tipologia di cellule coinvolta nei meccanismi di resistenza recidiva e resistenza ai farmaci».
Come si lega questa informazione al tuo lavoro attuale?
«La nostra ipotesi è che una terapia di “differenziazione”, mirata specificamente alle cellule progenitrici renali, potrebbe ridurre la massa tumorale. In pratica, si tratta di far perdere a queste cellule le loro caratteristiche di staminalità, così da non alimentare il tumore. Nell’attuale progetto stiamo sperimentando delle molecole promettenti, che funzionano come “differenzianti” sulle cellule progenitrici renali: stiamo conducendo sia esperimenti in vitro standard – come le culture “in piastra” 2D – sia prove con organ-on-chip – strumenti in condizioni tridimensionali che simulano meglio le caratteristiche dell’organo».
Qualche risultato?
«I dati preliminari indicano che queste molecole sono in grado di indurre la differenziazione e la morte delle cellule progenitrici renali. Ora stiamo le stiamo sperimentando su un modello animale con carcinoma renale papillare, così da verificarne gli effetti in vivo. I risultati di questo studio, in futuro, potrebbero aprire la strada a farmaci veri a propri in grado di fornire nuove prospettive per i pazienti affetti colpiti da questo tumore».
Anna, raccontaci qualcosa di più di te e sul tuo percorso lavorativo.
«Ho studiato due anni a Londra e ho lavorato per sette a New York, con esperienze di lavoro anche a Los Angeles. All’inizio sono stata guidata dalla voglia di imparare la lingua inglese e scoprire la vita londinese, mentre negli Stati Uniti ho cercato un’esperienza lavorativa in un laboratorio di alto livello internazionale. Dal punto professionale ho collaborato con numerosi ricercatori con background diversi, e ho potuto confrontarmi con loro per potere migliorare le mie tecniche, sia sperimentali che di ragionamento scientifico».
E dal punto di vista umano?
«Sono state esperienze che mi hanno sicuramente arricchita. Ho imparato l’inglese e sopratutto ho conosciuto persone provenienti da ogni angolo del mondo, riuscendo ad apprezzare diverse colture e stili di vita e, allo stesso tempo, a riconoscere quanto fossero importanti le mie origini francesi».
Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?
«Da bambina volevo diventare un’insegnante di biologia, come mio padre. Poi al liceo mi sono accorta che quello che veramente m’interessava durante le ore di biologia era la parte sperimentale, potere verificare con le mie proprie mani le teorie imparate. Da lì ho capito che la ricerca avrebbe potuto rispondere alle mie aspettative di vita professionale».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Continuare la sperimentazione in questo campo, possibilmente con il mio proprio gruppo di ricerca, e poter vedere che il mio lavoro ha permesso un miglioramento nel trattamento dei pazienti affetti da patologie renali».
E cosa ti piace di più del tuo lavoro?
«Mi piace la diversità, il fatto che le attività della giornata sono sempre diverse, e l’intensa stimolazione intellettuale della ricerca scientifica».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«La precarietà nella ricerca è un punto dolente, che spero possa evolvere positivamente nel futuro».
Una figura che ti ha ispirato nella tua vita personale e professionale.
«Mio padre insegnava biologia. Mi piaceva osservarlo quando preparava i suoi corsi, correggeva i compiti dei suoi studenti. Comprava dal macellaio organi di animali, raccoglieva le uova di rana, riportava secchielli di topi, tutte cose che avrebbe portato a scuola il giorno dopo per i suoi studenti e che avevo la fortuna di potere osservare a casa insieme a lui la sera. Quando andavamo a passeggio in montagna mi spiegava tutto delle rocce, la sua principale passione, ma anche delle piante e degli animali. Mi ha insegnato ad apprezzare e soprattutto rispettare la natura, e per quello sarò per sempre grata. E poi la curiosità, mi ha trasmesso curiosità per capire tutto ciò che ci circonda».
Hai qualche hobby o passione al di fuori dell’ambito scientifico?
«Mi piacciono le attività culturali come cinema, teatro e lettura, e le passeggiate in montagna o in campagna. Queste attività mi aiutano a rilassarmi e a trovare serenità. Da un paio d’anni sono volontaria FUV e AIRC, e gli eventi di piazza condivisi con gli altri volontari sono momenti speciali che ci fanno sperare in un futuro migliore per la ricerca e per i pazienti che cerchiamo di aiutare».
Hai famiglia?
«Sì, ho un figlio di 7 anni, e sono molto orgogliosa del fatto che sia un bambino molto curioso che ama piante e animali, e a cui piace passare tempo nella natura».
E se un giorno tuo figlio ti dicesse di voler fare il ricercatore?
«Sarei molto fiera di aver trasmesso al mio figlio l’amore per il mio mestiere, ma allo stesso tempo cercherei di capire se la sua scelta è motivata da una vera e propria passione: fare il ricercatore è un lavoro molto bello ma impegnativo, e solo chi ama veramente la ricerca riesce a trovare felicità e serenità. Mi assicurerei anche che fosse a conoscenza della precarietà di tanti ricercatori e della necessità di fare un’esperienza all’estero».
La cosa che più ti fa arrabbiare.
«Sentire le persone disprezzare la vaccinazione, l’uso degli animali di laboratorio o la ricerca in generale, perché denota una mancanza di conoscenze scientifiche. Penso che FUV faccia un lavoro fantastico di divulgazione scientifica e sono molto orgogliosa di potere partecipare a questa opera di utilità pubblica con gli appuntamenti del “ricercatori in classe”».
Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?
«Prima di tutto vorrei ringraziarle con tutto il mio cuore per la loro generosità e la loro civiltà. Noi ricercatori abbiamo bisogno di loro per potere svolgere il nostro mestiere con passione e impegno costante. In questo momento di estrema difficoltà, supportare la ricerca è fondamentale per potere creare un futuro migliore per tutti».