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Agnese Collino
pubblicato il 26-03-2018

Punto a scoprire come cambia il metabolismo nel tumore del rene



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Roberto Pagliarini applicherà un modello computazionale allo studio dei tumori renali, per chiarire le alterazioni nel metabolismo delle cellule cancerose e in che modo influenzano la malattia

Punto a scoprire come cambia il metabolismo nel tumore del rene

Per poter aumentare la produzione di energia e supplire alle loro necessità di crescita, le cellule tumorali devono riorganizzare il loro metabolismo. Non a caso un’alterazione nel metabolismo cellulare è una delle caratteristiche comuni a tutti i tumori. Tuttavia non abbiamo ancora una comprensione esaustiva degli effetti legati alla modifica dei meccanismi energetici. Non è chiaro per esempio perché solo alcune attività metaboliche partecipino all’insorgenza e alla progressione dei tumori, e in che modo si possa sfruttare il peculiare metabolismo delle cellule malate per migliorare le terapie anti-tumorali. I processi che regolano la produzione di energia nella cellula sono interconnessi in un complesso network, dove una singola disfunzione può determinare uno sbilanciamento anche su più reazioni direttamente o indirettamente collegate. In questo ambito di studio un aiuto formidabile arriva dalla bioinformatica, che con algoritmi ad hoc può aiutarci a comprendere meglio le relazioni di causa-effetto nell’alterazione di queste intricate reti, e a fornire quindi nuove informazioni utili nella progettazione di terapie efficaci. Proprio di questo si occupa Roberto Pagliarini, informatico dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano, che grazie al sostegno della Fondazione Umberto Veronesi punta ad applicare un algoritmo da lui sviluppato allo studio del tumore dei reni.


Roberto, raccontaci del tuo progetto di ricerca.

«I tumori renali colpiscono ogni anno più di undicimila italiani, soprattutto uomini. Di questi, la tipologia più comune è quella del carcinoma del rene. L’obiettivo del mio progetto è di usare un approccio matematico per studiare le alterazioni metaboliche osservate in una forma di carcinoma renale in cui un enzima chiave del metabolismo cellulare (chiamato fumarato idratasi) ha un’attività ridotta. La complessa rete nella quali le reazioni del metabolismo sono organizzate rappresenta lo scenario perfetto per applicare un algoritmo che ho recentemente sviluppato e che ha già permesso di predire le alterazioni metaboliche in una rara malattia genetica. Nell’ultimo anno ho adattato il mio algoritmo al fine di simulare il metabolismo del cancro: una volta ottenuti i risultati, li valideremo poi su linee cellulari derivanti da modelli animali».


Quali prospettive potrà aprire il tuo studio?

«Questo approccio potrà identificare marcatori associati alle mutazioni della fumarato idratasi, ma anche svelare alterazioni inaspettate di altri enzimi o prodotti del metabolismo nella progressione del cancro. Risalendo ai meccanismi cellulari in cui questi metaboliti sono coinvolti, potremo distinguere i processi regolativi modificati nel cancro, e i loro collegamenti funzionali. Potremo comprendere se le alterazioni metaboliche osservate sono legate tra loro da un nesso di causalità. Infine, la validazione su linee cellulari consentirà di identificare possibili bersagli molecolari per lo sviluppo di nuove terapie: la combinazione con un approccio computazionale permette di ridurre tempi e costi dei test sperimentali e a migliorare l’approccio clinico».


Roberto, tu hai trascorso parte del tuo dottorato all’estero: cosa ti ha spinto ad andare e cosa ti ha lasciato questa esperienza?

«È vero: ho passato circa un anno in Inghilterra, presso la School of Health dell’Università di Cranfield. Desideravo soprattutto ampliare le mie conoscenze, apprendere nuove tecniche e metodologie, ma anche comprendere in che modo la ricerca venga approcciata fuori dai confini nazionali. Tirando le somme, quel periodo mi ha regalato solo cose positive: in primo luogo una rete di colleghi e amici, con i quali ho condiviso momenti intensi di studio e lavoro. Ho poi potuto apprezzare l’importanza degli italiani che fanno ricerca all’estero: le università italiane formano molto bene i futuri ricercatori, che poi danno un grande contributo nei laboratori sparsi per il mondo».


Se dovessi scommettere su un filone della ricerca biomedica che fra cinquant’anni avrà prodotto un concreto avanzamento per la salute, su cosa punteresti?

«Sicuramente sulla biologia dei sistemi e la biologia sintetica, perché fanno da collante tra molte discipline anche distanti. Sono convinto che il progresso della scienza e della ricerca possa avvenire solo attraverso l’interazione tra discipline complementari».


Qual è per te il senso profondo del fare ricerca?

«C’è una tratta dai “Philosophiae naturalis principia matematica” di Isaac Newton che secondo me rende molto bene l’idea: “Non so come io appaia al mondo, ma per quel che mi riguarda mi sembra di essere stato solo come un fanciullo sulla spiaggia che si diverte nel trovare qua e là una pietra più liscia delle altre o una conchiglia più graziosa, mentre il grande oceano della verità giace del tutto inesplorato davanti a me”».


Ricordi il momento in cui hai capito che la tua strada era quella della scienza?

«Ho scelto di intraprendere questo percorso per poter lasciare qualcosa alle generazioni future, e per aiutare persone meno fortunate di me. Ho capito che questa era proprio la mia strada durante un corso dell’ultimo anno di università, nel quale un professore con le sue lezioni mi fece innamorare del suo ambito di ricerca all’avanguardia. Quel professore, Vincenzo Manca, divenne poi il mio supervisore durante il dottorato, e con lui ancor oggi ho un bellissimo rapporto».


Cosa avresti fatto se non avessi fatto il ricercatore?

«Difficile rispondere a questa domanda. Magari l’insegnate, oppure il programmatore. Ma sono sempre stato molto attratto da libri e quotidiani, quindi perché no: forse anche il bibliotecario o l’edicolante».  


Qual è il tuo libro preferito?

«Mi piace molto la “Solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano».


Cosa ti piace fare nel tempo libero?

«Ho una grande passione: il podismo. Corro a livello agonistico e le mie giornate iniziano sempre prestissimo con l’allenamento. Gareggio sulle distanze della maratona e mezza maratona».


Quando è stata l’ultima volta che hai pianto?

«Dopo la perdita di una persona cara. Sono molto timido, non mostro facilmente i miei sentimenti».


Cos’è che invece ti fa ridere a crepapelle?

«Le imitazioni di Crozza!».


C’è un personaggio famoso che ti piacerebbe conoscere?

«Eliud Kipchoge, il più forte maratoneta in circolazione. Mi piacerebbe parlare con lui di tante cose, non solo di sport: venendo da una regione del mondo molto povera ha dovuto affrontare tantissime difficoltà prima di diventare la persona che è oggi. Probabilmente partirei da una domanda molto semplice: cosa è per lui la corsa e cosa lo spinge a mettersi continuamente in gioco. Penso che potrebbe essere illuminante per me, in primis per la mia carriera come scienziato».


Agnese Collino
Agnese Collino

Biologa molecolare. Nata a Udine nel 1984. Laureata in Biologia Molecolare e Cellulare all'Università di Bologna, PhD in Oncologia Molecolare alla Scuola Europea di Medicina Molecolare (SEMM) di Milano, Master in Giornalismo e Comunicazione Istituzionale della Scienza all'Università di Ferrara. Ha lavorato nove anni nella ricerca sul cancro e dal 2013 si occupa di divulgazione scientifica


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