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I nostri ricercatori
Agnese Collino
pubblicato il 16-04-2018

Nuove prospettive per il linfoma linfoblastico



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Valentina Serafin cercherà differenze nell’attività di alcune proteine chiave tra i piccoli pazienti che abbiano o meno sviluppato ricadute, per individuare nuovi marcatori e bersagli terapeutici

Nuove prospettive per il linfoma linfoblastico

Il linfoma linfoblastico pediatrico rappresenta l’otto per cento di tutti i linfomi pediatrici. I trattamenti terapeutici che abbiamo a disposizione sono molto efficaci: nel 75-85 per cento dei casi i pazienti raggiungono una completa guarigione. Tuttavia i pazienti che vanno incontro a una ricaduta presentano una prognosi negativa, e il tasso di guarigione resta purtroppo molto basso. Grazie al sostegno del progetto Gold for Kids di Fondazione Umberto Veronesi, Valentina Serafin lavora presso l’Istituto di Ricerca Pediatrica Città della Speranza di Padova per migliorare le possibilità dei pazienti affetti da una recidiva di questa malattia, attraverso l’identificazione di marcatori o bersagli terapeutici. L’individuazione di nuovi marcatori permetterebbe di predire già alla diagnosi la probabilità di ricaduta, e di determinare quindi precocemente quali sono i piccoli pazienti più a rischio, mentre la scoperta di nuovi bersagli terapeutici consentirebbe di proporre una terapia più mirata ed efficace.


Valentina, dacci qualche dettaglio in più sul tuo studio.

«Per raggiungere il mio obiettivo utilizzerò una tecnica innovativa, che permette di misurare l’attività delle proteine che regolano sopravvivenza e morte delle cellule tumorali (molecole in effetti spesso alterate nei tumori). La tecnica sarà applicata ai campioni dei pazienti al momento della diagnosi, confrontando le misurazioni tra pazienti senza recidive rispetto a quelli che avranno una ricaduta. Le proteine che funzioneranno diversamente nei due gruppi potranno essere valutate come nuovi marcatori o bersagli terapeutici».


Sei mai stata all’estero a fare un’esperienza di ricerca?

«Sì: nel 2007 ho aderito al programma Erasmus e ho svolto un anno in un laboratorio di ricerca all’Università di Würzburg (Germania). È stata l’esperienza più formativa della mia vita, sia a livello personale che lavorativo. Ho imparato ad essere indipendente e a cavarmela da sola, ma soprattutto ho capito che nella vita volevo fare ricerca nell’ambito oncologico e che volevo farlo in Italia, perché penso non si possa dare il 100% nel lavoro se non si è appagati anche nella vita privata, e quindi senza la possibilità di vivere accanto alla famiglia e agli amici».


Qual è la molla che ti spinge a fare ricerca e dà significato alle tue giornate lavorative?

«La ricerca è la cosa più stimolante che io conosca. Ci sono sempre nuove domande a cui trovare una risposta e, per quanto riguarda la ricerca oncologica, nuovi approcci per migliorare la vita dei pazienti. È proprio questa la fonte della mia motivazione: l’idea che il mio tempo e le mie energie siano spese nel tentativo di trovare nuove strategie per aiutare bambini affetti da tumori ancora non del tutto curabili».
 

Come hai capito che la ricerca era la tua strada?

«Fin da piccola sono sempre stata una bambina curiosa che amava sapere il “perché” di ogni cosa. I ricordi più cari della mia infanzia sono proprio le giornate passate in compagnia di mio nonno, che costruiva marchingegni con me o mi portava in mezzo alla natura per farmi conoscere piante, funghi e animali. Crescendo ho mostrato una forte inclinazione verso le materie scientifiche e verso la biologia in particolare. Ai miei occhi era una scienza incompleta e in divenire che aveva ancora tanti perché a cui dare risposta, e questo mi affascinava».


Il momento più memorabile della tua carriera scientifica.

«Quando nel 2017 siamo riusciti a pubblicare un nostro importante lavoro sulla rivista scientifica Blood: lo studio tratta la possibilità di rendere nuovamente sensibili all’azione del cortisone, farmaco comunemente usato per il trattamento dei pazienti affetti da leucemia pediatrica acuta a cellula T, pazienti altrimenti resistenti. A questo scopo abbiamo individuato e bloccato una proteina molto attiva proprio nei pazienti più resistenti al farmaco, avvalendoci di un inibitore farmacologico già in uso per altre patologie. L’importanza di questo lavoro sta nel fatto che il trasferimento di questi risultati alla clinica potrebbe essere molto veloce».


Una figura che ti ha ispirato nella tua vita personale e professionale.

«Sono sempre stata affascinata dalle figure (in particolare quelle femminili) dei premi Nobel. Una su tutte Rita Levi Montalcini, promotrice del libero pensiero e della parità fra donne e uomini. Ha sempre lavorato con grande tenacia e determinazione nel perseguire i propri obiettivi: durante il periodo della guerra aveva allestito un laboratorio a casa sua pur di continuare le sue ricerche… direi che non serve aggiungere altro!».


Che opinione ti sei fatta di chi si dichiara contrario al parere della comunità scientifica per proprie convinzioni?

«Purtroppo viviamo una fase storica di sfiducia generale nelle istituzioni, e quindi anche nella scienza e nella medicina. Se a questo si aggiunge il fatto che su internet si possa trovare tutto e il contrario di tutto, il conto è presto fatto. Se non si ha una buona capacità critica è difficile discernere informazioni veritiere da affermazioni fuorvianti e, in alcuni casi, addirittura dannose per la propria salute e per quella dei propri cari. Per questo penso che tra i compiti dei ricercatori ci sia quello di far conoscere al pubblico ciò che viene fatto e i risultati che sono stati ottenuti, di condurre campagne di informazione e divulgazione scientifica seria e trasparente in modo da fugare i dubbi e le perplessità da parte chi non è del settore».


La tua più grande paura?

«Il tempo che scorre: temo di scoprire un giorno di non avere abbastanza tempo per tutte le cose che vorrei fare nella vita».


Se potessi scegliere, quale personaggio famoso ti piacerebbe conoscere?

«Margherita Hack: mi piacerebbe poter discutere con lei di astrofisica e di laicità».

 

Agnese Collino
Agnese Collino

Biologa molecolare. Nata a Udine nel 1984. Laureata in Biologia Molecolare e Cellulare all'Università di Bologna, PhD in Oncologia Molecolare alla Scuola Europea di Medicina Molecolare (SEMM) di Milano, Master in Giornalismo e Comunicazione Istituzionale della Scienza all'Università di Ferrara. Ha lavorato nove anni nella ricerca sul cancro e dal 2013 si occupa di divulgazione scientifica


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