Lo studio degli effetti della metformina sulle cellule di colon-carcinoma potrebbe aiutare a individuare un bersaglio terapeutico alternativo: la ricerca di Elena Torreggiani
Il tumore del colon-retto è il terzo tumore più frequente nel mondo. La sua incidenza sta aumentando nei Paesi in via di sviluppo, mentre sta progressivamente diminuendo dove si attuano campagne di prevenzione e di screening per la diagnosi precoce, come la ricerca del sangue occulto nelle feci e la colonscopia. Il primo trattamento contro il tumore al colon-retto è quello chirurgico, coadiuvato dalla radioterapia e da altre terapie farmacologiche. Circa la metà dei pazienti risponde positivamente ai trattamenti disponibili, ma purtroppo è possibile lo sviluppo di farmaco-resistenze. Per questo motivo è importante la continua ricerca di cure alternative. La metformina è un farmaco comunemente usato per il trattamento del diabete di tipo 2, anche se studi recenti hanno evidenziato come questa molecola sia in grado di inibire la crescita di diversi tipi tumorali, in vitro e in vivo. Elena Torreggiani è ricercatrice presso l’Università degli Studi di Ferrara e studia proprio l’effetto della metformina sulla proliferazione delle cellule del carcinoma del colon-retto: il suo progetto verrà sostenuto nel 2022 da una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi.
Elena, come nasce l'idea del vostro lavoro?
«Questo progetto nasce dall’esigenza di individuare dei possibili bersagli terapeutici e nuovi trattamenti per la cura del cancro del colon-retto. L’idea di utilizzare metformina come possibile farmaco capace di inibire la crescita delle cellule di tumore colon-rettale deriva dai dati di letteratura, che riportano la sua azione antiproliferativa in diversi tumori. Anche risultati recenti ottenuti nel nostro laboratorio hanno dimostrato il ruolo antitumorale di metformina nel mesotelioma maligno della pleura».
Quali sono gli obiettivi specifici del vostro progetto?
«L’obiettivo del progetto è studiare gli effetti della metformina sulle cellule tumorali e valutare il possibile coinvolgimento del gene Notch1 nel mediare la sua attività. Notch1, infatti, è espresso in modo anomalo nel tumore del colon-retto, dove è attivamente coinvolto nello sviluppo della farmacoresistenza. Questo studio auspica di valutare gli effetti antitumorali della metformina e i meccanismi molecolari in questo tumore che, a oggi, non sono ancora chiari».
Quali prospettive apre, anche a lungo termine, per la conoscenza biomedica e per la salute umana?
«I risultati del progetto aiuteranno a comprendere il ruolo della metformina nel CRC e il suo possibile utilizzo come terapia alternativa contro questo cancro. Inoltre, una buona riuscita di questo studio consentirà di identificare Notch1 come possibile bersaglio molecolare per terapie innovative contro il carcinoma del colon».
Sei mai stata all’estero per un’esperienza di ricerca?
«Sono stata un anno in Connecticut (USA), presso il Laboratorio del Professor Ivo Kalajzic, University of Connecticut Health Center. Sono partita poco dopo aver conseguito il dottorato di ricerca».
Cosa ti ha spinto ad andare?
«È stata una concomitanza di fattori: sia la voglia di mettermi in gioco e di confrontarmi con una realtà lavorativamente e culturalmente diversa, sia il fatto che il laboratorio in cui avevo svolto il dottorato non aveva più la possibilità di finanziarmi».
Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
«È stata stupenda, nonostante all’inizio non sia stata facilissima soprattutto per via della lingua. Se tornassi indietro la rifarei senza alcun dubbio. Mi ha permesso di crescere molto a livello professionale, imparando nuove metodologie e un diverso approccio scientifico, ma soprattutto mi ha dato tanto a livello umano. Ho avuto la fortuna di conoscere persone provenienti da varie parti del mondo, con un bagaglio di esperienze e un contesto culturale molto diverso dal mio. Queste persone si sono rivelate non solo dei validi colleghi di laboratorio, ma anche amici che hanno saputo sopperire, almeno in parte, alla mancanza degli affetti familiari».
Ti è mancata l’Italia?
«Sì, l’Italia mi è mancata. In particolare mi sono mancati gli affetti familiari e il buon cibo».
Ricordi com’è nato il tuo interesse per la scienza?
«L’interesse per la scienza nasce sui banchi del liceo, grazie al mio professore di biologia: i suoi insegnamenti hanno scaturito in me la passione verso questa disciplina e l’idea di iscrivermi alla facoltà di Biologia. Successivamente ho intrapreso un percorso specifico di biologia cellulare e molecolare, che si è consolidato nell’oncologia molecolare grazie al dottorato».
Elena, c’è un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare?
«Il momento più bello è stato sicuramente la discussione della tesi di laurea specialistica. Ricordo ancora con gioia l’emozione e la soddisfazione di quel traguardo e, soprattutto, la commozione e la felicità dei miei genitori».
E uno da dimenticare?
«Ci sono stati veramente tanti momenti di sconforto e di delusione, ma nessuno da dimenticare».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Spero di poter allargare la mia famiglia e di continuare ancora questo lavoro».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«Il fatto che sia un’attività creativa e in continua evoluzione, che richiede un costante studio e aggiornamento. Nella ricerca nulla può essere dato per scontato. Anche risultati che sembrano banali o comunque lontani dalla nostra ipotesi iniziale, possono rivelarsi delle scoperte importanti».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«Un aspetto che eviterei volentieri è il precariato. Questa condizione di instabilità, se protratta per lunghi periodi, genera una condizione di insicurezza e frustrazione, che si riflette negativamente sul lavoro quotidiano».
Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?
«Futuro, innovazione, speranza».
Qual è per te il senso che ti spinge a fare ricerca e dà un significato profondo alle tue giornate lavorative?
«Il motore che mi spinge a fare ricerca è quello di poter dare un mio piccolo contributo per il miglioramento delle condizioni di vita della collettività».
In cosa, secondo te, può migliorare la scienza e la comunità scientifica?
«Un aspetto da migliorare è la comunicazione. Si dovrebbe utilizzare un linguaggio più semplice e univoco, in modo da trasmettere messaggi chiari e trasparenti, comprensibili a tutti».
E in che modo potrebbe essere aiutato il lavoro di chi fa scienza?
«Investendo di più nella ricerca. Purtroppo le nostre forze politiche tendono a considerare la ricerca un “optional” e non una necessità basilare per un futuro migliore del Paese. Un altro aspetto che potrebbe migliorare la ricerca scientifica è il rafforzamento dei legami tra università, centri di ricerca e mondo imprenditoriale: consentirebbe di trasferire più rapidamente le innovazioni verso l’ambito applicativo».
Pensi che ci sia un sentimento antiscientifico in Italia?
«Penso che in Italia, purtroppo, ci sia un forte sentimento antiscientifico, maturato soprattutto negli ultimi tempi a causa dell’emergenza sanitaria. Questa situazione, invece di infondere fiducia nella scienza, ha paradossalmente creato un clima di ostilità verso la figura del ricercatore. Ciò deriva sia da una cattiva informazione da parte dei media, sia da una comunicazione poco chiara da parte dagli organi istituzionali».
Hai famiglia?
«Sì, sono sposata e ho un bimbo di un anno».
Se un giorno tuo figlio ti dicesse che vuole fare il ricercatore, cosa gli diresti?
«Gli direi che fare ricerca è probabilmente il lavoro più bello e dinamico che ci sia, ma che dovrà armarsi di tanta passione, determinazione e pazienza: i momenti di sconforto saranno tanti. Gli direi inoltre di tenere sempre a mente che il vero obiettivo di un ricercatore è partecipare alla scoperta di conoscenze utili alla collettività. Solo dopo vengono le pubblicazioni e i traguardi personali. Infine, gli suggerirei di fare un periodo all’estero, perché è un’esperienza che arricchisce sia dal punto di vista professionale che personale».
La cosa di cui hai più paura?
«Ho paura di vedere soffrire le persone che amo e non poterle aiutare».
Sei soddisfatta della tua vita?
«Sì, molto».
La cosa che più ti fa arrabbiare?
«Ci sono diverse cose che mi fanno arrabbiare. Tra tutte l’indifferenza e l’arroganza».
La cosa che ti fa ridere a crepapelle?
«L’espressione del volto di mio figlio quando gli faccio il solletico».
Il libro che più ti piace?
«Un libro che mi è piaciuto tantissimo è “L’amico Immaginario” di Matthew Dicks».
Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?
«Direi loro semplicemente grazie. Con il loro gesto contribuiscono a portare avanti la ricerca scientifica, che è un patrimonio di tutti, e a tenere viva la speranza di un futuro migliore per la collettività».