Giulia Betto sta sviluppando un progetto di ricerca sull’autismo per capire se un maggiore apporto di magnesio dalla dieta può migliorare il funzionamento dei neuroni
L’autismo, o meglio i disturbi dello spettro autistico, sono disordini neuropsichiatrici che interessano diverse funzioni cerebrali. Le cause che li originano non sono ancora del tutto comprese; sempre più studi suggeriscono che si originino durante lo sviluppo del sistema nervoso centrale nel grembo materno, anche se i sintomi compaiono solo dopo la nascita, tra i 12 e i 24 mesi di età. Questa coincidenza temporale ha fornito terreno fertile per il diffondersi della diceria che l’autismo sia collegato ai vaccini, voce diffusa inizialmente da un medico inglese, ora radiato dall’albo, tramite uno studio poi rivelatosi una vera e propria truffa.
I neuroni dei pazienti autistici hanno disfunzioni a livello delle sinapsi, cioè i punti di contatto tra neuroni diversi che costituiscono la base di una corretta trasmissione nervosa. Comprendere le alterazioni morfologiche e funzionali è il primo, fondamentale passo per chiarire le cause dell’autismo e mettere a punto eventuali trattamenti. In questo filone di ricerca si posiziona il lavoro di Giulia Betto, ricercatrice toscana trapiantata a Milano dove lavora nei laboratori del Cnr sotto la guida della Professoressa Michela Matteoli. Prima di approdare nel capoluogo lombardo, Giulia ha lavorato al Cleveland Clinic Lerner Research Institute negli Stati Uniti durante la tesi di laurea, e successivamente alla Scuola Internazionale di Studi Superiori Avanzati di Trieste, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Neurobiologia.
Giulia, in cosa consiste il tuo progetto di ricerca?
«I neuroni dei pazienti affetti da disturbi dello spettro autistico presentano delle alterazioni a livello morfologico. In particolare, hanno bassi livelli della proteina Eps8. In laboratorio abbiamo un modello murino geneticamente privo della proteina Eps8. È stato proposto che un aumento dei livelli di magnesio nel cervello sia in grado di modificare la morfologia dei neuroni mancanti in Esp8, potenziando le capacità cognitive e di memoria. L’obiettivo del mio progetto è chiarire i meccanismi molecolari che sono alla base del processo attraverso tecniche di biologia molecolare ed elettrofisiologia; questa comprensione potrà avere ricadute positive sull’identificazione di nuovi bersagli terapeutici per il trattamento dell’autismo».
Quali prospettive future apre questo progetto per il trattamento dei disturbi dello spettro autistico?
«Se riuscissimo a dimostrare, nel nostro modello murino di autismo, che un aumentato apporto di magnesio tramite una specifica dieta determina un miglioramento dell’attività funzionale e morfologica dei neuroni coinvolti nell’instaurarsi della sindrome dell’autismo, si potrebbero applicare le conoscenze acquisite anche all’uomo»
Come passi il tempo al di fuori del laboratorio?
«Il mio hobby preferito da quando sono diventata mamma è stare con mio figlio! Abitando lontano dalla mia famiglia di origine e lavorando a tempo pieno, ogni attimo che mi resta lo dedico ad Andrea e a mio marito».
Un lato brutto del lavoro del ricercatore…
«Sicuramente gli addii. Proprio per come è concepito il nostro lavoro, sempre precario, e per la sua natura stessa che ti spinge a cambiare laboratorio per completare la tua formazione, capita di trovare veri amici nei colleghi che però devi salutare alla fine del contratto».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Domanda difficile! Dal punto di vista lavorativo non oso andare così lontano. In Italia, se lavori nella ricerca sei sempre più “instabile” e quindi evito di pensare così lontano. In ogni caso, il mio sogno sarebbe quello di continuare a fare ancora questo lavoro nel mio paese».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«La scoperta, il fatto che davanti a ogni sfida c’è un diverso tipo di esperimento e quindi è un po’ come fare ogni giorno un lavoro nuovo».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«Tutto ciò che è burocrazia».
Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?
«Innovazione, avanguardia, laboratori ma soprattutto speranza per tutte quelle persone malate che vivono nell’attesa di una cura».
Quale è stata la figura più importante nella tua vita personale e professionale?
«Mio padre. Durante il dottorato ho avuto momenti difficili da superare e spesso ho pensato di mollare ma grazie ai suoi incoraggiamenti sono riuscita a finire il mio progetto e continuare con il mio sogno di essere una ricercatrice».
Quale futuro immagini per la ricerca nei prossimi cinquant'anni?
«La ricerca sul cancro ha fatto passi da gigante negli scorsi 50 anni: nei prossimi 50 credo che i tumori non faranno più paura ma saremo in grado di curarli con farmaci alla portata di tutti rendendolo una “normale” malattia cronica, ma curabile».
Qual è per te il senso profondo che ti spinge a fare ricerca ogni giorno?
«Il fatto di non fermarmi all’apparenza, ma andare all’essenza delle cose».
Chiara Segré
Chiara Segré è biologa e dottore di ricerca in oncologia molecolare, con un master in giornalismo e comunicazione della scienza. Ha lavorato otto anni nella ricerca sul cancro e dal 2010 si occupa di divulgazione scientifica. Attualmente è Responsabile della Supervisione Scientifica della Fondazione Umberto Veronesi, oltre che scrittrice di libri per bambini e ragazzi.