Le sofferenze subite da piccoli possono stimolare le risorse del cervello per un buon adattamento, ma il rischio è di pagare il conto nell'età adulta. Una ricerca lancia questa ipotesi. Ma i più attuali studi confermano che la resilienza, cioè la capacità di superare i disagi psichici, è una forza che si può acquisire
Le sofferenze e i traumi subiti da piccoli possono prima far bene, poi far male. Questo è l’insolito esito di una ricerca riportata su Biological Psychiatry e condotta da studiosi indiani e americani dell’Istituto Tata di Mumbai, in India. Va subito detto che l’indagine è stata condotta su topi e come stress della prima infanzia è stata scelta la separazione dalla madre. Seguendo poi, nella crescita, i mutamenti nel cervello e i comportamenti degli animaletti, sono stati constatate , nella loro prima età adulta, queste trasformazioni: una maggiore produzione di nuove cellule (neurogenesi) nell’ippocampo e del fattore neurotrofico cerebrale (Bdnf), che è una delle chiavi di modulazione della neurogenesi; infine, una maggiore capacità di imparare in una situazione di stress.
IL PREZZO DELLL’ADATTAMENTO
Questi mutamenti, hanno spiegato i ricercatori, sono tutti segni di buon adattamento, in pratica superamento della sofferenza subita nella prima età. La ricerca, però, è andata avanti e, arrivata all’età di mezzo delle cavie, ha constatato una caduta di tutti gli elementi sopra elencati: ridotta neurogenesi nell’ippocampo, ridotto sviluppo del Bdnf e ridotte capacità mnemoniche. Tutti segni di un cattivo adattamento agli stress infantili. Come se questo fosse - ha osservato il professor Vidita Vaidya – il caro prezzo che si paga, dopo, per la risposta efficiente dei primi tempi. Finale consolatorio: si è visto che, somministrando antidepressivi, i segni cerebrali di disadattamento, che in concreto vuol dire sofferenza, spariscono dal cervello.
LO SGUARDO DELLA PSICOANALISI
Sui risultati di questa indagine interpelliamo Massimo Biondi, che ha condotto ricerche nello stesso ambito insieme con il collega Angelo Picardi. Direttore del Dipartimento di Scienze psichiatriche e Medicina psicologica all’Università la Sapienza di Roma, Biondi parte dalla storia: «Questo legame tra esperienze negative dell’infanzia e modificazione dei comportamenti in età successive fu già individuata negli anni ’30 dai primi psicoanalisti, anzi, questa è l’impalcatura della psicoanalisi, però allora non c’erano evidenze. Le prime vennero negli anni ’60: si vide allora che le esperienze precoci in un ambiente ricco di stimoli producevano una corteccia cerebrale più spessa e un maggior numero di connessioni tra le cellule cerebrali».
EFFETTI VISIBILI ANCHE SULLE DIFESE IMMUNITARIE
E’ allora la prima volta che le emozioni appaiono “scritte” nell’anatomia. «Sì. E negli anni ’70 si osservò che moderati traumi - superati dal soggetto - nell’infanzia, rinforzano i sistemi di risposta allo stress così che da adulti si hanno reazioni ormonali più equilibrate di fronte a problemi o pericolo. Perché si diventa più “resilienti”». Vuol dire che si affrontano le difficoltà meglio, e con minor sofferenza? «Certo. Poi la ricerca è andata oltre: noi per esempio abbiamo pubblicato uno studio dove a un precoce attaccamento affettivo insicuro è correlato una più bassa efficienza dei linfociti “natural killer”, che possiamo definire i guardiani contro tumori e virus». Ma la ricerca di Mumbai parla di una buona risposta iniziale a un pesante stress nella prima infanzia e di un successivo crollo…«Già, lo stress acuto lì per lì aiuta a reagire, scatta la spinta a sopravvivere, è la forza della vita che nel bisogno mobilizza anche forze estreme. Ma spesso la paghi sul lungo termine perché la crescita non è stata normale, è sbilanciata. E allora cominciano i dolori».
LA RESILIENZA SI IMPARA
Ovviamente non c’è una correlazione meccanica tra dolori infantili e risposta adulta: «Contano le risorse fisiologiche o psicologiche o psico-sociali che uno può mettere in campo. Se uno è nato pauroso, fa meno fronte. Se uno perde la mamma, ma poi ha una nonna affettuosa, conta. Mentre se perde anche la nonna, cambia scuola, è vittima di bullismo beh, allora, se c’è una sequenza di traumi è ben più difficile non affondare». La sorpresa sta nella seguente affermazione di Biondi: «Però la resilienza si impara. Insieme con gli psicofarmaci, io la insegno ai miei pazienti. In breve, consiste in quello che uno dice a se stesso per spiegarsi quello che accade. E’ come percepiamo le cose che importa, non come sono». Sul rapporto psichiatra-paziente, infine, Massimo Biondi sottolinea quanto si evince dagli studi fin qui citati: «Un legame stabile e duraturo è fondamentale per la cura. Se io tratto in modo accogliente e costante nel tempo un paziente, non è più un atto di cortesia o di affetto: ora lo sappiamo, è un fatto che induce stabilità cerebrale, dunque è parte della terapia».
Serena Zoli
Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.