Giuliano Pisapia, avvocato e oggi sindaco di Milano, che partecipa all'apertura dei lavori congressuali di Science for Peace, appassionato studioso di problemi giudiziari fa un'analisi del sistema giustizia italiano e mette in luce le più gravi storture
Giuliano Pisapia, avvocato e oggi sindaco di Milano, che partecipa all’apertura dei lavori congressuali di Science for Peace, appassionato studioso di problemi giudiziari fa un’analisi del sistema giustizia italiano e mette in luce le più gravi storture
Giuliano Pisapia (Milano, 20 maggio 1949) è avvocato, scrittore, eletto deputato per due legislature, sindaco di Milano dal 1º giugno 2011. Fa parte del Comitato scientifico della Camera penale di Milano (di cui è stato vicepresidente) e del Comitato direttivo delle riviste Critica del Diritto, Alternative Europa e I diritti dell'Uomo, oltre che componente del consiglio di amministrazione della Fondazione Vidas. È coautore dei volumi: San Vittore: voci dal carcere e sul carcere, Milano 1988; Usage de stupéfiants: politiques européennes, Ginevra 1996; Il Diritto e il Rovescio: i rapporti tra politica e magistratura; Giustizia penale: esiste l'approdo?, 2007.
Che opinione ha dell'ergastolo in relazione ai reati comuni e al regime del 41 bis?
Da un anno e mezzo faccio il sindaco di Milano, ma per molto più tempo ho fatto l’avvocato e sempre mi sono occupato con passione di diritti e giustizia. Il mio impegno per il superamento nel nostro ordinamento della pena dell’ergastolo ha, quindi, radici molto lontane nel tempo ed è stato all’ordine del giorno della mia esperienza da parlamentare, da presidente della Commissione giustizia della Camera, da presidente del Comitato Carceri della Camera dei deputati e infine da presidente della Commissione per la riforma del codice penale, che nel 2008 ho avuto l’incarico di redigere dal governo Prodi. Dalla Commissione ministeriale che era composta da professori universitari, avvocati e magistrati di altissimo livello è stato approvato un progetto complessivo di riforma del codice penale in grado di dare al nostro Paese un codice moderno, efficace, efficiente da sostituire all’attuale codice che, nel suo impianto generale, risale al 1930 e, in più punti, mal si concilia con i principi e i valori della nostra Costituzione. In quel progetto che è stato presentato in Parlamento, ma che non ha fatto passi avanti, salvo alcune indicazione recepite in proposte di legge approvate a larga maggioranza, non solo si prevedevano, finalmente, pene principali diverse da quelle carcerarie, e quindi irrogate già dai giudici di merito – quali detenzione domiciliare, pene interdittive, pene prescrittive, messa alla prova anche per imputati maggiorenni, lavori socialmente utili o finalizzati al risarcimento dei anni eccetera, non prevedeva la pena dell’ergastolo. Non più, quindi, “fine pena mai” ma un limite massimo di durata della detenzione che poteva però subire modifiche sulla base delle periodiche verifiche sul grado del reinserimento. In molti Paesi europei, e non solo europei, l’ergastolo, del resto, non è previsto neppure come ipotesi. Quello che deve essere chiaro, al di là delle opinioni politiche e personali, è che la nostra Costituzione afferma che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. E il ‘fine pena mai’ è incompatibile con questo principio costituzionale. Che cosa ha da perdere chi sa che passerà il resto dei suoi giorni in detenzione?
Sul 41 bis: la Corte Costituzionale ha, in più occasioni, affermato che i provvedimenti di emergenza devono avere una durata definita e limitata nel tempo. La finalità del 41 bis, che è quella di evitare rapporti tra detenuti collegati con associazioni mafiose e criminali ancora in libertà, risponde a una preoccupazione fondata; non deve però comportare che si finisca con imporre trattamenti degradanti o contrari al senso di umanità. Non ci possono essere deroghe: la lotta alla criminalità organizzata e la sicurezza dei cittadini non possono, e non debbono mai, contrastare con i principi costituzionali che stanno alla base del nostro ordinamento democratico.
Quale potrebbe essere, secondo la sua esperienza, una pena capace di riabilitare e reintegrare un delinquente nella società?
Credo che una citazione da Cesare Beccaria sia più chiara di qualsiasi altra risposta: quasi duecentocinquanta anni fa, il grande giurista auspicava ‘una pena pronta, equa, proporzionata’. E metteva in chiaro una cosa: non è una pena terribile ma incerta ad avere una funzione deterrente, quanto la certezza della sua applicazione. La pena, qualunque essa sia, deve essere tassativa ed effettiva. Cosa che oggi non mi pare che accada. Quello che importa, dunque, non è lo spauracchio di tanti anni di carcere. Il carcere è un’istituzione totale, che facilmente diventa violenta e deve essere l’ultima ratio mentre, in molti casi, evidentemente per i reati di non grave allarme sociale e per gran parte dei reati colposi, sono più efficaci, e più immediate, pene diverse da quelle detentive. Penso, per fare alcuni esempi, a provvedimenti quale il divieto di andare allo stadio per chi si comporta in maniera minacciosa o violenta o al divieto di costituire società o avere ruoli nella gestione di una impresa per chi ha commesso reati societari non gravi. Sono queste pene – che possono essere pecuniarie, interdittive, prescrittive - che, come dimostra l’esperienza di molti Paesi europei, hanno una effettiva efficacia deterrente, fanno diminuire la recidiva e sono realmente efficaci. Tutto ciò, naturalmente, non in presenza di reati di sangue o di gravi condotte penalmente rilevanti.
Quanto la certezza della pena fa da deterrente per un ipotetico delinquente, in relazione anche al sistema di sconti e riduzioni del sistema giuridico italiano?
C’è un aspetto che mi preme sottolineare, e non è frutto di buonismo, ma è il risultato della lettura di dati certi: tra coloro che scontano l’intera pena in carcere, il 70 per cento torna a commettere reati. Significa che sette detenuti su dieci non sono stati affatto ‘rieducati’ e recuperati alla società e se così tanti, dopo essere usciti dal carcere, ci rientrano, vuol dire che questo, in non pochi casi, non è il sistema migliore. Ma c’è di più: tra coloro che scontano pene alternative al carcere, il tasso di recidiva non è superiore al 12 per cento. Tutto questo è la dimostrazione che se davvero si lavora sui detenuti - consentendo loro di lavorare, non spezzando i legami con la famiglia, legando il loro comportamento a un sistema premiale – è possibile realizzare quello che auspica l’articolo 27 della Costituzione.
Che cosa pensa delle condizioni sanitarie delle carceri italiane e degli istituti minorili?
Le condizioni delle carceri sono il segnale di civiltà di un Paese. Se guardiamo alle carceri italiane, questo rischia di diventare, se non lo è già, un Paese incivile. Anche oggi da sindaco, mi sono molto impegnato su questo fronte. Con il Consiglio comunale straordinario che abbiamo tenuto nella casa circondariale di San Vittore lo scorso 5 ottobre, abbiamo voluto dare un forte segnale in questo senso. Non era mai accaduto che una seduta formale di un consiglio comunale si tenesse dentro un carcere, ed è stato importante non solo dal punto di vista simbolico. In quella occasione abbiamo infatti approvato la delibera che istituisce il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Abbiamo anche sottolineato i gravi problemi che riguardano gli istituti di pena come il sovraffollamento, carenze di personale, problemi di salute e aspetti che non rendono dignitosa la vita dei detenuti. D’altra parte ci tengo a sottolineare il grande lavoro svolto con senso di responsabilità dai direttori delle carceri e dalla polizia penitenziaria che ogni giorno si trovano a fronteggiare situazioni particolarmente delicate in una condizione di oggettiva difficoltà.
Stefano Masin