La riabilitazione neuromotoria permette di migliorare movimento e linguaggio dopo un ictus. Ma si studiano anche nuovi approcci sperimentali
Quali sono le opportunità per recuperare autosufficienza e funzioni neuromotorie dopo un ictus? Grazie alla fiducia nel progresso e nella ricerca scientifica, sopravvivere non ci basta più. Quello a cui puntiamo, ormai da molti anni, è vivere al meglio, con una qualità della vita quanto più soddisfacente possibile. Per questo motivo, gli sforzi volti a minimizzare le numerose disabilità che possono permanere a seguito di un ictus cerebrale sono molti, e in continua evoluzione.
ICTUS: PRIMA CAUSA DI INVALIDITÀ
L’ictus cerebrale, responsabile in Italia del 10% di tutti i decessi, rappresenta la terza causa di morte dopo le malattie oncologiche e quelle cardiovascolari, e la prima causa di disabilità. Solo il 25% dei pazienti sopravvissuti a un ictus, infatti, guarisce completamente, mentre il 75% si ritrova a convivere con qualche forma di invalidità. Una percentuale consistente, circa il 50%, è portatore di un deficit così grave da perdere l’autosufficienza per il resto della vita. La principale conseguenza è rappresentata dalla compromissione motoria: il paziente può sperimentare una diminuzione o la perdita della funzione motoria in una metà del corpo (emiparesi/emiplegia). Tipica è anche l’afasia, un disturbo del linguaggio che, in maniera più o meno marcata, altera la capacità di comprensione ed espressione delle parole.
LA RIABILITAZIONE NEUROMOTORIA
«Nelle settimane successive all’ictus – spiega il professor Claudio Grassi, direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università Cattolica di Roma – ci può essere un recupero della funzione neuromotoria, anche molto significativo, dovuto a processi riparativi spontanei. La vera sfida risiede nel mettere in atto varie iniziative riabilitative che possano minimizzare i deficit funzionali dei pazienti, accelerandone il recupero. L'approccio tipico, attualmente utilizzato, è rappresentato dalla riabilitazione neuromotoria che cerca di esercitare e recuperare tutte quelle abilità compromesse a causa dell’ictus, come diminuzione della forza muscolare, mancanza di coordinazione ed equilibrio, difficoltà nella deambulazione, difficoltà a parlare e deglutire». Il paziente, con l’aiuto di fisiatri e fisioterapisti, imparerà a compensare eventuali disabilità permanenti con tecniche alternative. «Per potenziare ulteriormente il ripristino delle funzioni motorie – prosegue il professor Grassi –, il nostro obiettivo è quello di affiancare alle metodologie classiche di riabilitazione, nuove metodiche quali la stimolazione non invasiva del cervello».
LA STIMOLAZIONE CEREBRALE
Negli ultimi anni, numerosi studi sperimentali hanno dimostrato che, affiancando alle procedure di riabilitazione neuromotoria standard, stimolazioni elettriche o magnetiche delle aree cerebrali interessate dall’ictus, si ottengono risultati migliori e in tempi più rapidi. «Il mio gruppo di ricerca si occupa da molti anni delle stimolazioni non invasive del cervello e, in prticolar modo, della tDCS, stimolazione transcranica a corrente diretta continua», racconta Claudio Grassi. Di che cosa si tratta? «Sono stimoli di lieve intensità, applicati sulla superficie cranica, in maniera per nulla invasiva o dolorosa, che consistono in una corrente continua, come quella erogata dalle batterie che usiamo per i piccoli elettrodomestici nella vita di tutti i giorni. Sono però molto efficaci nel modificare due caratteristiche funzionali fondamentali delle cellule nervose: l’eccitabilità, ovvero la capacità di generare segnali, e la plasticità cerebrale, ovvero la riorganizzazione di carattere morfologico e funzionale che il cervello mette in atto a seguito di determinati eventi».
LO STUDIO
Queste tecniche sono state oggetto di studio in una sperimentazione, recentemente descritta sulla rivista Stroke, nata da una collaborazione tra il team del Professor Claudio Grassi e quello del Professor Paolo Maria Rossini, direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Scienze della Riabilitazione dell’IRCCS San Raffaele. La sperimentazione, condotta su modello animale ha permesso di rilevare che, intervenendo nella fase sub-acuta, cioè tre giorni dopo l’evento ischemico indotto, si ottengono evidenze tangibili di “riparazione” del danno ischemico nel cervello dei topi. Le stimolazioni, in sessioni singole della durata di venti minuti, sono state applicate per tre giorni consecutivi.
COSA È EMERSO
«Abbiamo osservato i miglioramenti sugli animali in termini di forza e abilità motoria –, chiarisce il professor Grassi –, valutando un'accelerazione del processo di recupero funzionale. Anche nel tessuto cerebrale danneggiato, a seguito delle stimolazioni, abbiamo apprezzato diverse modifiche sia a livello strutturale, sia molecolare. I segni molecolari di ripresa indotti dalla stimolazione consistono nella produzione di molecole importanti per il cervello come i fattori di crescita denominati neurotrofine. Inoltre, nei neuroni situati nella zona prossima alla lesione, abbiamo osservato un numero aumentato delle spine dendritiche, strutture essenziali per la comunicazione tra una cellula nervosa e l’altra. Questo potrebbe essere alla base dell’aumentata connettività neurale valutata nello studio mediante registrazioni elettroencefalografiche. La conoscenza delle chiavi molecolari in grado di accelerare la ripresa delle funzioni neuromotorie potrebbe consentirci anche di predire l’evoluzione e l’entità del recupero funzionale nei vari soggetti. La trasferibilità di questi promettenti dati all’uomo deve essere comprovata con indagini future. Tuttavia, nonostante la complessità delle funzioni cerebrali dell’uomo e dei topi non siano paragonabili, i meccanismi alla base del recupero funzionale sono condivisi».
RIABILITARE E STIMOLARE
«In futuro dobbiamo puntare alla sinergia tra i diversi approcci», conclude Claudio Grassi. «Oltre alla riabilitazione neuromotoria e alla promettente stimolazione cerebrale, stiamo cercando di capire se effettivamente si possano usare le cellule staminali nella riabilitazione post ictus. In particolare, puntiamo a somministrare microvescicole contenenti fattori neurotrofici e piccole molecole di RNA (miRNA) prodotti dalle cellule staminali che riteniamo possano operare sui medesimi bersagli delle stimolazioni, accelerando ulteriormente il recupero delle abilità neuromotorie».
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Fonti
Caterina Fazion
Giornalista pubblicista, laureata in Biologia con specializzazione in Nutrizione Umana. Ha frequentato il Master in Comunicazione della Scienza alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e il Master in Giornalismo al Corriere della Sera. Scrive di medicina e salute, specialmente in ambito materno-infantile