Vari studi confermano che la memoria si consolida con il coinvolgimento attivo. Le nuove linee guida prescrivono esercizio fisico per gli anziani
Come si deve studiare per ricordare le risposte giuste alle interrogazioni? Si può leggere il libro di testo in silenzio o leggere in silenzio sì, ma muovendo le labbra; oppure è meglio leggere le parole a voce alta, se non addirittura ripeterle a voce a qualcuno? La penultima è la risposta esatta: la memoria è stimolata al meglio se leggiamo a voce alta.
Questo almeno è quanto assicura la rivista Memory pubblicando uno studio dell’Università di Waterloo in Canada. Gli autori spiegano che è la “doppia azione” di parlare e di ascoltare se stessi parlare aiuta la mente a immagazzinare l’informazione di modo che divenga una memoria a lungo termine. Già in precedenza lo stesso gruppo di scienziati canadesi si erano dedicati allo studio della memorizzazione. E avevano battezzato “production effect” la differenza nel favorire la memoria delle parole lette ad alta voce rispetto alle parole lette in silenzio.
LEGGERE O CAMMINARE?
Questa volta il team canadese ha chiesto a 95 soggetti di leggere in silenzio, di ascoltare qualcun altro leggere, di ascoltare la registrazione di se stessi che leggono, infine di leggere a voce alta lì sul momento. Alla fine è risultato che per ricordare le parole il sistema più efficace è di leggere ad alta voce. Colin MacLeod, direttore del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Waterloo, osserva: «Lo studio conferma che si impara e si memorizza meglio se vi è un coinvolgimento attivo». Ma ai fini pratici questa ricerca a che cosa porta?, gli è stato chiesto. «Se si parla di applicazioni pratiche, al di là di individuare il modo migliore di studiare – ha risposto il professor MacLeod - a me vengono in mente le persone anziane cui si raccomanda incessantemente di esercitarsi nelle parole crociate e nei puzzle per conservare e rafforzare la memoria. Ebbene, in seguito a questo studio sappiamo anche che l’esercizio fisico costante e il movimento costituiscono dei bei mattoni per sostenere la memoria».
NUOVE LINEE GUIDA PER GLI ANZIANI: MOVIMENTO!
A questo punto si può trovare conferma in un’altra ricerca effettuata dalla Mayo Clinic e pubblicata su Neurology, il giornale della American Academy of Neurology in cui si dà notizia anche delle nuove linee guida per i medici di base a proposito degli anziani con un lieve deterioramento cognitivo: non si stupiscano se anziché medicine la prescrizione sarà di fare esercizio fisico due volte alla settimana. «Sappiamo da tempo che l’esercizio fisico costante fa bene al cuore e alle arterie e oggi possiamo dire che sostiene la memoria in persone a rischio su questo piano», ha dichiarato Ronald Petersen, che ha guidato la ricerca e che è direttore del Centro di ricerca sull’Alzheimer alla Mayo Clinic, organizzazione non-profit degli Stati Uniti. «Quel che fa bene al cuore può far bene anche al cervello», ha concluso. Per lieve deterioramento cognitivo (in inglese mild cognitive impairment) si intende una fase intermedia tra il declino normale col passare dell’età e il ben più serio declino legato alla demenza. I sintomi possono comprendere problemi di memoria, del linguaggio, del pensiero e del discernimento che appaiono più consistenti rispetto all’attesa usura legata soltanto all’età.
ETA’ O PATOLOGIA: RALLENTARE
In genere questi cambiamenti non sono tali da interferire con la vita e le attività di ogni giorno, ma potrebbero aumentare il rischio di un successivo scivolamento nella demenza causato dalla malattia di Alzheimer o da altre condizioni neurologiche. Varie persone tuttavia non peggiorano mai ed alcune, anzi, possono migliorare. Come? I ricercatori del gruppo del dottor Petersen hanno rivisto tutti gli studi fin qui prodotti sull’argomento e hanno trovato, per l’appunto, che l’esercizio fisico due volte alla settimana può essere di aiuto nel mantenere la mente brillante. La domanda a questo punto è: quale esercizio? La risposta: di tipo aerobico. E cioè? Camminata veloce, jogging, qualunque altra cosa simile purché fatta per 150 minuti alla settimana, che possono essere 30 minuti per 5 volte nella settimana o 50 minuti per 3 volte. E il livello di intensità? Deve essere tale da condurre al limite di sudare, ma non così sostenuto da impedire di fare conversazione. Sono indicazioni abbastanza precise. Quanto alle prove cognitive in senso stretto, fatte con esercizi al computer o in piccoli gruppi, il dottor Petersen avverte che son state trovate deboli prove della loro validità nel rallentare il declino mentale.
L'INVECCHIAMENTO NON VA SUBÌTO
Sono 6 su cento le persone dai 60 ai 70 che accusano un lieve deterioramento cognitivo in tutto il mondo mentre sono il 37 per cento tra chi ha 85 anni e oltre. Con simili numeri, osservano gli scienziati, individuare degli stili di vita che possano rallentare il processo di indebolimento mentale può fare davvero una grande differenza sia per i singoli sia per la società. «Non dobbiamo guardare all’invecchiamento come a un processo passivo, che si subisce soltanto, perché, invece, possiamo fare qualcosa per cambiarne il corso», fa presente Ronald Petersen. «Se, mettiamo, sono destinato a diventare indebolito a livello mentale a 72 anni, posso fare regolare attività fisica e spostare questa soglia a 75 o 78 anni. Guardate che non è poco».
10 MINUTI D’ORO
Il minimo indispensabile di esercizio fisico per trarne beneficio cognitivo, qual è? Un altro gruppo di ricercatori si è impegnato su questo fronte non solo per curiosità o per amore delle misure, ma anche perché ci sono persone che per problemi fisici non possono muoversi tanto. C’è chi ha calcolato quanto “frutta” un’ora di esercizio per una prestazione cognitiva, altri si sono cimentati a misurare i 20 minuti di camminata o pedalata, infine eccoci al minimo dei minimi: 10 minuti. Ma a che cosa possono mai servire 10 minuti di movimento? Il professor Matthew Heath della Western University in Ontario (Canada) afferma che una “dose” di esercizio fisico fornisce una “dose”, un “sussulto” di vivacità in più alla mente. I partecipanti all’esperimento, di cui ha riportato modalità e risultati la rivista Neuropsychologia, o si sono seduti a leggere un giornale per 10 minuti oppure hanno usato una cyclette con un impegno tra il moderato e il vigoroso. Dopo, sono stati sottoposti a un sofisticato esame basato sul movimento degli occhi che si chiama antisaccade task, che è stato ampiamente impiegato per calcolare le performance esecutive. «I partecipanti che avevano fatto esercizio fisico hanno mostrato un miglioramento immediato – ha riferito il professor Heath. – Le loro risposte sono state più accurate e i loro tempi di reazione sono stati fino a 50 millisecondi più brevi delle loro valutazioni antecedenti la prova. Detto così sembra un valore ininfluente, in realtà rappresenta un 14 per cento di guadagno in una performance cognitiva in alcuni casi». Quel che un breve movimento fisico produce nel cervello per farlo “scattare” gli scienziati lo immaginano così: viene “accesa” la rete frontoparietale, che è una parte del cervello che prima era stata implicata negli stimoli cerebrali basati sull'esercizio fisico. Si ricorda che nel 2014 uno studio rivelò che un programma di ginnastica per bambini obesi ne migliorava l’assetto frontoparietale.
MUOVERSI FA BENE ALLA MEMORIA DI TUTTI
Il risultato della ricerca canadese si presta a dare benefici a molte persone. Intanto a quanti, sulla via o no della demenza, non sono in grado di sostenere prove fisiche prolungate, quindi possono prodursi in brevi spot comunque utili. E’ un suggerimento valido per tutti: vi sentite bloccati in una pratica, incagliati per una sorta di appannamento mentale? Fatevi un giro dell’isolato, a passo sostenuto, e poi rimettetevi al lavoro. Potrebbe riaccendersi la famosa “lampadina”. «Lo dico sempre ai miei studenti – conclude il professor Heath – prima di scrivere un test o sostenere un esame orale o comunque prima di fare qualsiasi cosa abbia a che fare con le capacità cognitive, dovrebbero prima fare un po’ di esercizio fisico. E i voti risulteranno migliori».
Fonti
Serena Zoli
Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.