Alcune forme gravi di Covid-19 dipenderebbero dalla genetica. Sul banco degli imputati è l'interferone. Gli studi pubblicati su Science
Perché Covid-19 si manifesta in maniera cosi differente tra persone apparentemente in salute? Perché anche in assenza di altre patologie una quota di individui sviluppa una forma di malattia molto grave? Le incognite sono ancora molte ma due studi pubblicati dalla rivista Science cominciano a fare luce su questi dubbi: circa il 15% delle forme gravi di Covid-19 sarebbe dovuta ad una predisposizione genetica. Ad affermarlo sono i ricercatori del Covid Human Genetic Effort (CovidHge), un consorzio internazionale di ricerca che coinvolge più di 50 centri di sequenziamento e centinaia di ospedali in tutto il mondo.
INTERFERONE FUORI USO
Sul banco degli imputati nello sviluppo delle forme più gravi di Covid-19 sembrerebbe essereci l'interferone-1 (almeno nel 15% dei casi), una molecola prodotta dalle cellule che ci difendono e necessaria a guidare la risposta del sistema immunitario. Nel primo studio gli scienziati, analizzando i tessuti provenienti da oltre 900 persone con forme gravi di Covid-19, hanno scoperto che nel 10% dei casi erano presenti auto-anticorpi contro l'interferone. Anticorpi in grado probabilmente di influenzare negativamente la risposta contro il virus.
Nella maggior parte dei pazienti la positività a questi auto-anticorpi è stata rilevata in campioni di sangue raccolti nei primi giorni dell'infezione, ma i ricercatori ipotizzano che gli anticorpi fossero già presenti prima del contagio e costituiscano quindi un fattore predisponente per le forme gravi. In alcuni casi è stato infatti possibile verificare la presenza degli anticorpi anche in campioni di sangue antecedenti all'infezione.
MUTAZIONI GENETICHE NELLA VIA DELL'INTERFERONE
Nel secondo studio invece gli scienziati hanno scoperto che un ulteriore 3,5% di pazienti con forme gravi di Covid-19 presentavano mutazioni genetiche capaci di influenzare la corretta produzione dell'interferone-1. Un risultato perfettamente in linea con il primo studio. A partire da queste evidenze il prossimo passo sarà ora quello di provare, nei pazienti più a rischio, a somministrare la molecola subito nelle fasi iniziali della malattia per provare a ridurre l'impatto del virus. Un'ipotesi che verrà valutata in uno studio in partenza presso il San Raffaele, uno degli istituti coinvolti nelle due ricerche sull'interferone.
Fonti
Daniele Banfi
Giornalista professionista del Magazine di Fondazione Umberto Veronesi dal 2011. Laureato in Biologia presso l'Università Bicocca di Milano - con specializzazione in Genetica conseguita presso l'Università Diderot di Parigi - ha un master in Comunicazione della Scienza ottenuto presso l'Università La Sapienza di Roma. In questi anni ha seguito i principali congressi mondiali di medicina (ASCO, ESMO, EASL, AASLD, CROI, ESC, ADA, EASD, EHA). Tra le tante tematiche approfondite ha raccontato l’avvento dell’immunoterapia quale nuova modalità per la cura del cancro, la nascita dei nuovi antivirali contro il virus dell’epatite C, la rivoluzione dei trattamenti per l’ictus tramite la chirurgia endovascolare e la nascita delle nuove terapie a lunga durata d’azione per HIV. Dal 2020 ha inoltre contribuito al racconto della pandemia Covid-19 approfondendo in particolare l'iter che ha portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA. Collabora con diverse testate nazionali.