Sara Lovisa studia i meccanismi che, a partire da una delle due malattie infiammatorie intestinali, possono «innescare» il tumore del colon-retto
Le malattie infiammatorie croniche dell’intestino, rettocolite ulcerosa e malattia di Crohn, sono correlate a un aumentato rischio di sviluppare il tumore al colon-retto. Alla base della trasformazione tumorale delle cellule epiteliali dell’intestino, c’è lo stato di infiammazione cronica che caratterizza tali patologie. Le cellule epiteliali dell’intestino possono incorrere nella cosiddetta transizione epitelio mesenchimale, che ne induce un cambiamento nella forma e nella funzionalità.
Questa trasformazione può essere osservata anche in pazienti con un'infiammazione cronica intestinale (grazie a una biopsia), ma il legame con lo sviluppo del tumore è ancora poco chiaro. Su questi aspetti si focalizza il lavoro di Sara Lovisa, ricercatrice sostenuta da Fondazione Umberto Veronesi che lavora all’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano (Milano).
Sara, raccontaci del tuo progetto. Di cosa ti occuperai?
«Il mio progetto riguarda lo studio dei meccanismi di sviluppo del tumore al colon nei pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche dell’intestino, quali la colite ulcerosa e il morbo di Crohn. Nello specifico, mi occuperò di studiare come le cellule epiteliali che rivestono la mucosa intestinale rispondano alla presenza di uno stato infiammatorio persistente e quali meccanismi inducano queste cellule a trasformarsi in cellule tumorali».
Come avviene lo studio della trasformazione tumorale delle cellule intestinali?
«In questo progetto utilizzeremo dei modelli preclinici in vivo, utilizzando dei topi come animali modello, che permetteranno di valutare il quadro complessivo della risposta infiammatoria intestinale e di riprodurre fedelmente quanto accade nell’organismo umano affetto da colite».
Cosa potremmo aspettarci, in futuro, conoscendo i meccanismi molecolari legati alla transizione epitelio-mesenchimale?
«I pazienti affetti da una malattia infiammatoria cronica intestinale presentano un elevato rischio di sviluppare tumori al colon. Capire quali siano i meccanismi che inducono la trasformazione tumorale in un quadro clinico di infiammazione cronica consentirà di individuare quali siano i pazienti a maggior rischio e di sviluppare approcci preventivi. Inoltre, tali conoscenze potranno essere applicate a malattie a carico di altri organi che presentano un simile decorso caratterizzato da infiammazione cronica e sviluppo di tumori».
Sara, sei mai stata all’estero a fare un’esperienza di ricerca?
«Sì, negli Stati Uniti».
Cosa ti ha spinta ad andare?
«Ho lavorato per sette anni all’MD Anderson Cancer Center di Houston, il migliore istituto tumori degli Stati Uniti, situato nel più grande polo medico al mondo. Fare ricerca negli Stati Uniti è stato il mio sogno nel cassetto fin da quando iniziai l’università».
Cosa ti ha lasciato questa esperienza a livello professionale?
«Questi sette anni negli Stati Uniti hanno costituito per me un’esperienza lavorativa indescrivibile. Ho avuto l’opportunità di far parte di un grande gruppo di ricerca e di lavorare su molteplici progetti imparando così moltissime tecniche e ampliando le mie conoscenze. Le risorse che ho avuto a disposizione in laboratorio, sia in termini finanziari sia di strumentazioni, erano illimitate e mi hanno consentito di svolgere e completare progetti molto importanti sul ruolo del microambiente tumorale e della risposta infiammatoria cronica».
E dal punto di vista personale?
«Altrettanto incredibile è stata l’esperienza di vita. Sono partita con due valigie e tanto entusiasmo, e ho dovuto riformulare la mia vita sulla base della nuova cultura in cui mi stavo immergendo. Integrazione e multiculturalità sono stati i cardini di questa nuova vita statunitense».
Ti è mancata l’Italia?
«Certamente, mi è mancata molto. Tuttavia, a Houston, ho avuto la fortuna di instaurare preziosissime amicizie italiane che, in questi sette anni, sono diventate per me come una nuova famiglia».
Sara, raccontaci un po' di te. Quando hai capito che la tua strada sarebbe stata quella della scienza?
«L’ho capito dopo gli esami di maturità, quando dovevo decidere a quale corso di laurea iscrivermi. Avevo mille idee e non riuscivo a decidermi. Così mi sono fermata a riflettere sulla cosa che più mi è sempre piaciuto fare e in cui mi consideravo brava: studiare. Pertanto, ho capito che fare ricerca sarebbe stato il lavoro giusto per me. La scelta di specializzarmi in campo medico è dovuta al mio desiderio di voler mettere a servizio della salute di tutti le mie capacità e il mio impegno».
Un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare e uno invece da dimenticare.
«Non dimenticherò mai il momento in cui ho ricevuto comunicazione che il mio primo studio svolto negli Stati Uniti era stato accettato per la pubblicazione dalla prestigiosa rivista scientifica Nature Medicine. Incornicerei, sicuramente, la copertina del numero uscito a settembre del 2015, dedicata proprio alla mia pubblicazione».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Mi vedo a dirigere il mio laboratorio e il mio gruppo di ricerca, focalizzato sullo studio delle connessioni tra infiammazione cronica e sviluppo di tumori».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«Il fatto di avere sempre domande nuove a cui rispondere. Impostiamo le nostre ricerche su meccanismi ancora ignoti che vogliamo capire. Prendiamo una strada che ci porterà a dare delle risposte a questi interrogativi. Saranno poi queste scoperte ad aprire nuove domande, sulle quali disegniamo ulteriori strade di comprensione. E così via, passo dopo passo, ci addentriamo verso i misteri dei tumori e delle altre malattie umane».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«L’eccessiva e aggressiva competizione esercitata da alcuni scienziati. Non la ritengo eticamente corretta».
Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?
«Studio, conoscenza, progresso, indipendenza, razionalità e creatività. Queste ultime due, in particolare, sembrerebbero escludersi a vicenda, invece sono entrambe parte essenziale della scienza. Le più grandi scoperte scientifiche si basano, ovviamente, sull’utilizzo di un approccio razionale, rigoroso e metodico, ma al tempo stesso scaturiscono dalla capacità di elaborare idee che vadano oltre gli schemi».
Una figura che ti ha ispirato nella tua vita professionale.
«Rita Levi Montalcini, per me è sempre stata la scienziata per eccellenza».
Qual è il messaggio più importante che ti ha lasciato?
«Condivido una sua citazione: “Non temete i momenti difficili, il meglio viene da lì”. Ho appurato questa frase molte volte, sia nella vita personale sia in quella professionale».
Cosa avresti fatto se non avessi fatto il ricercatore?
«Pensandoci bene, ora come ora, non riesco a vedermi in nessun altro ruolo se non in quello della ricercatrice».
Una cosa che vorresti assolutamente fare almeno una volta nella vita.
«Un viaggio in Giappone. Ho avuto il privilegio di lavorare con parecchi colleghi giapponesi e sono molto affascinata dalla loro cultura. Infatti, vorrei approfondire la conoscenza di questa cultura, nonché visitare posti bellissimi di cui mi hanno parlato molto».
Con chi ti piacerebbe andare a cena una sera e cosa ti piacerebbe chiedergli?
«Mi piacerebbe cenare con Fabiola Gianotti, direttrice del CERN di Ginevra. Ho una grande ammirazione per le donne che ricoprono ruoli di responsabilità nei vari ambiti della scienza e mi piacerebbe chiederle qualche consiglio per la mia crescita professionale. Recentemente, ho iniziato a interessarmi delle sempre più frequenti discussioni riguardo al ruolo della donna nelle discipline scientifiche, alle difficoltà di genere che spesso incontra e alla promozione dell’uguaglianza professionale».
Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?
«Grazie, perché le vostre donazioni sono un indispensabile sostegno alla ricerca scientifica. Se possiamo continuare a fare ricerca in Italia è soprattutto grazie al contributo fornito da realtà come Fondazione Umberto Veronesi, sostenute da tanti generosi donatori. Nella ricerca, il costo del personale e delle strumentazioni rappresentano le voci che pesano maggiormente sul bilancio di un laboratorio. Il contributo costante di tutti i donatori può davvero aiutare a sostenere questi costi. Nel mio caso specifico, inoltre, proprio grazie a questa borsa di Fondazione Umberto Veronesi sono rientrata in Italia, portando così in casa tutte le conoscenze acquisite durante la mia esperienza all’estero».