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I nostri ricercatori
Chiara Miriam Maddalena
pubblicato il 28-07-2020

Studio il ruolo degli oligodendrociti nella sclerosi multipla



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Elisabetta Coppi studia il processo di maturazione degli oligodendrociti, coinvolti nella progressione della sclerosi multipla

Studio il ruolo degli oligodendrociti nella sclerosi multipla

La sclerosi multipla è una malattia cronica neurodegenerativa che colpisce il sistema nervoso centrale. Si tratta di una condizione di origine autoimmune, poiché origina da una reazione anomala delle difese immunitarie che, scambiandoli per agenti estranei, attaccano alcuni componenti del sistema nervoso centrale. La reazione provoca uno stato infiammatorio che può danneggiare la mielina - la sostanza che circonda e isola le fibre nervose - mediante un processo detto demielinizzazione.


Nel momento in cui avviene un danno, vengono reclutate cellule chiamate precursori degli oligodendrociti che, diventando oligodendrociti maturi, producono nuova mielina. Nella sclerosi multipla, sfortunatamente, questo processo di ri-mielinizzazione non avviene a causa della mancata maturazione dei precursori. Studi preliminari hanno dimostrato che il processo di maturazione e differenziazione sarebbe inibito dall’azione delle molecole adenosina e sfingosina 1-fosfato (S1P) che, pertanto, potrebbero costituire nuovi possibili bersagli terapeutici.

 

Elisabetta Coppi, ricercatrice dell’Università degli Studi di Firenze, grazie al supporto di una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi, lavora per identificare nuove strategie terapeutiche che stimolino la maturazione degli oligodendrociti.

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Elisabetta, nel tuo progetto ti occupi di sclerosi multipla. Cosa sappiamo e cosa invece no di questa malattia?

«Sappiamo che gli oligodendrociti sono le uniche cellule nervose in grado di produrre nuova mielina quando questa viene danneggiata. Tuttavia, nei pazienti affetti da sclerosi multipla, la loro attività è inibita dell’instaurarsi di un ambiente infiammatorio. Il mio progetto di ricerca si propone di ampliare tali conoscenze, studiando i meccanismi mediante i quali eventuali farmaci sarebbero in grado di potenziare l’azione riparativa degli oligodendrociti sulla mielina danneggiata».

 

Quale strategia pensate di adottare per raggiungere questo obiettivo?

«Testeremo l’efficacia del Fingolimod, il primo farmaco orale approvato per la sclerosi multipla. Questa molecola si lega ai recettori di adenosina e di S1P sui linfociti e li modula, attenuando il processo infiammatorio a livello del sistema nervoso centrale. In particolare, il nostro scopo è quello di verificarne l’effetto sulla differenziazione dei precursori, alla base della maturazione in oligodendrociti maturi. Gli esperimenti vengono condotti in vitro su cellule di ratto. Obiettivo: valutare se alla fine si registri o meno un aumento della produzione di mielina».

 

Quali prospettive si potranno aprire, a lungo termine, per la cura di questa malattia neurodegerativa?

«La nostra ricerca potrebbe indicare nuove strategie per lo sviluppo di farmaci contro la sclerosi multipla, in particolare di sostanze in grado di riparare il danno mielinico. Un risultato che gli attuali trattamenti usati in clinica non sono in grado di garantire».

 

Elisabetta, parlaci un po’ di te. Sei mai stata all’estero a fare un’esperienza di ricerca?

«Sì, ho avuto l’occasione di andare due volte in Inghilterra all'University College di LOnda, dove ho terminato la mia formazione di dottorato. La seconda volta sono rimasta a Londra per quattro mesi e ho voluto portare con me i miei due figli per permettere loro di frequentare una scuola inglese e apprendere la lingua. È stata un’esperienza unica e molto formativa per tutta la famiglia».

 

Cosa ti ha spinta ad andare?

«La possibilità di aprire i miei orizzonti sia nel campo della ricerca che in quello culturale. Infatti, ho avuto l’opportunità di approfondire diverse tecniche scientifiche utilizzando strumenti all’avanguardia e di imparare a pensare in maniera critica. Inoltre, ho conosciuto personalmente scienziati di fama internazionale, assistendo a seminari molto interessanti. Infine, ho potuto perfezionare il mio inglese, aspetto molto utile nel mondo scientifico».

 

Ti è mancata l’Italia?

«Sì, mi sono mancati gli affetti e le mie abitudini, specialmente quelle alimentari, ma sono felice dell’opportunità che ho avuto nel fare un’esperienza formativa di altissimo livello».

 

Quando hai capito che la tua strada era quella della scienza?

«La mia passione per la scienza risale ai tempi del liceo. Nell’apprendere le basi della biologia, non riuscivo a capacitarmi dell’infinita complessità di ogni singola cellula del corpo umano e, al tempo stesso, della perfezione con cui tutto viene coordinato in ogni singolo istante».

 

Un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare.

«Uno dei momenti più belli della mia attività scientifica è stato quello in cui ho avuto la possibilità di sperimentare gli effetti di una tossina molto potente, in grado di bloccare uno specifico canale a livello dei neuroni. L’attività di questa molecola svaniva immediatamente durante l’applicazione della tossina, per poi ricomparire in seguito alla sua rimozione. Quindi, abbiamo ripetuto l’esperimento varie volte, confermando che quel fenomeno era mediato dai canali neuronali. È stata una scoperta molto importante».

 

Elisabetta, cosa ti piace di più della ricerca?

«La curiosità che ho quando sto per iniziare un esperimento e non so che risultati darà».

 

Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«Un laboratorio, un camice bianco e una piastra di cellule in coltura».

 

Cosa avresti fatto se non avessi fatto il ricercatore?

«L’insegnante».

 

Qual è il senso profondo che ti spinge a fare ricerca e che dà un significato alle tue giornate lavorative?

«Il poter fare indagini, studiare, apprendere sempre qualcosa di nuovo, mettere in discussione le teorie, fare collegamenti fra fenomeni diversi, confrontarmi con i miei colleghi. E, infine, arrivare a conclusioni spesso inaspettate».

 

In cosa, secondo te, può migliorare la comunità scientifica?

«La comunità scientifica dovrebbe essere più aperta al nuovo e ai giovani. In particolare, trovo che i mentori dovrebbero trasmettere ai ricercatori in erba, più che delle conoscenze, gli strumenti per sviluppare un proprio pensiero critico».

 

Percepisci fiducia intorno alla figura del ricercatore?

«In Italia, purtroppo, non credo che i ricercatori siano abbastanza valorizzati. A mio parere, si dà molta importanza alla didattica svolta dai professori universitari dimenticando, spesso, che l’attività di ricerca vera e propria è fatta principalmente da dottorandi, post-doc e giovani ricercatori».

 

Elisabetta, cosa fai nel tempo libero?

«Mi piace correre e suonare il pianoforte».

 

Se un giorno tuo figlio ti dicesse che vuole fare il ricercatore, come reagiresti?

«Ne sarei felice perché penso sia il lavoro più bello del mondo».

 

Una cosa che vorresti assolutamente fare almeno una volta nella vita.

«Vorrei visitare la Muraglia cinese».

 

Di cosa hai più paura?

«Degli insetti a otto zampe, sono aracnofobica».

 

Sei soddisfatta della tua vita?

«Non molto, sono ancora un lavoratore precario».

 

Il libro che più ti piace.

«"L’evoluzione delle specie" di Darwin».

 

C'è una «pazzia» che hai fatto e che vuoi raccontarci?

«Mi trovavo a New York nel giorno della maratona e ho provato a partecipare imbucandomi su uno di quei pullman che portavano i “runners” alla partenza. Ovviamente, non è andata come speravo».

 

Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Non c’è azione più nobile che aiutare ad accrescere la nostra capacità di sapere, imparare, studiare e trasmettere nuove conoscenze alle generazioni future. Inoltre, vorrei aggiungere il mio profondo senso di gratitudine per Fondazione Umberto Veronesi, in quanto è una delle pochissime realtà in Italia a bandire borse di ricerca per chi ha superato i 38 anni. Infatti, solitamente, proprio quando un ricercatore ha raggiunto la maturità e l’indipendenza scientifica per dare il suo massimo, viene abbandonato a sé stesso a causa del limite di età, che ne preclude la partecipazione alla maggior parte dei bandi per borse di studio o di ricerca. Grazie, per aver dato anche a una quarantenne come me l’opportunità di continuare a portare il proprio contributo nel mondo della ricerca».

 


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