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Redazione
pubblicato il 10-04-2013

Guidare la sedia a rotelle col cervello



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In chi ha deficit motori alcune aree cerebrali si riorganizzano e fanno percepire la carrozzina come parte del proprio corpo. Un meccanismo neurobiologico chiamato appunto “embodiment”

Guidare la sedia a rotelle col cervello

In chi ha deficit motori alcune aree cerebrali si riorganizzano e fanno percepire la carrozzina come parte del proprio corpo. Un meccanismo neurobiologico chiamato appunto “embodiment”  

Sue Austin, disabile da 16 anni, ha reso subacquea la sua carrozzina con due motori a propulsione e una pinna e si è tuffata negli abissi, dando vita a una performance artistica, Creating The Spectacle, i cui video hanno fatto il giro del web. Perchè nuotare con la sedia a rotelle? Perchè è diventata una parte di sè, tanto da portarla anche in acqua. Non dipende dall’uso, nè dall’esperienza, ma solo dalla capacità del cervello di «incorporare» la sedia a rotelle e sentirla parte del proprio corpo, un meccanismo neurobiologico chiamato «embodiment» e comune a chi necessita di device meccanici esterni per il movimento. Lo spiega uno studio italiano appena pubblicato su PLOs ONE.

COME CAMBIA IL CERVELLO- «Nei disabili si riscontrano delle modificazioni del sistema nervoso nelle aree deputate alla percezione del proprio corpo», spiega Marco Molinari, Direttore dell’Unità di Riabilitazione Neuromotoria e Sezione Mielolesi presso l’IRCCS Fondazione Santa Lucia di Roma che ha coordinato lo studio in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia dell’Università La Sapienza. Se per un deficit motorio, a seguito di incidente o malattia, si deve ricorrere all’uso quotidiano di un supporto esterno, sia esso una sedia a rotelle, una protesi o un arto robotico, il cervello si adatta alla nuova percezione spaziale del proprio corpo, riorganizzando i movimenti e anche le sensazioni provenienti delle zone non più funzionanti. E’ proprio come quando si guida una nuova auto: serve del tempo affinchè le aree del cervello che raccolgono i riferimenti spaziali si abituino a nuove dimensioni per permetterci di muoverci agilmente come con la vecchia automobile. Con le disabilità motorie, è richiesto uno sforzo maggiore per  il forte coinvolgimento anche della componente emotiva.

LO STUDIO- I ricercatori hanno valutato il legame instaurato con la sedia a rotelle da 55 pazienti colpiti da mielolesioni, in cui viene compromessa la comunicazione tra corpo e cervello. Un uso quotidiano induce il cervello ad adattarsi, ma è la gravità della lesione motoria a condizionare maggiormente questo meccanismo. «Abbiamo riscontrato che chi può spingere la carrozzina con le braccia ha un’interazione motoria migliore e un maggiore coinvolgimento emozionale che lo porta ad accettare lo strumento. Non è così per chi ha lesioni lombari più estese che coinvolgono anche la motilità degli arti superiori: non potendo muovere autonomamente la carrozzina il cervello del paziente si adatta difficilmente alla nuova condizione», prosegue. I pazienti che rifiutano la sedia a rotelle non lo farebbero, quindi, per scelta. Comprendere i meccanismi neurobiologici alla base di questo processo può garantire un maggiore successo della riabilitazione, favorendo l’accettazione della disabilità, e anche dare nuovi spunti per la progettazione di supporti meccanici più facili da ‘incorporare’.

ANCHE I CAMPIONI- L’«embodiment» non si nota solo in chi ha deficit motori, alcune persone possono sviluppare un rapporto privilegiato con un oggetto estraneo al proprio corpo. Il cervello di Pelè, il mitico campione brasiliano,  sostengono gli esperti, probabilmente percepiva che il pallone fosse un prolungamento del piede, tanto da riuscire a controllarne i movimenti come se fosse un altro arto. Questa capacità plastica del cervello, cioè di adattamento, si nota anche nei campioni paraolimpici che raggiungono alti livelli di prestazioni atletiche grazie a un equilibrio armonioso con carrozzine e protesi. Per sfruttare queste potenzialità si deve ora capire quali sono le aree che si accendono nel meccanismo di ‘incorporamento’ e come cambia la percezione del corpo lesioni più profonde. Un nuovo studio, già avviato dallo stesso team italiano, cercherà di rispondere a questi quesiti.

Cinzia Pozzi 


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