Ricostituite nei laboratori di Harvard le cellule in grado di secernere l’insulina. Ma il ricorso all’ormone sintetico, a oggi, rimane quasi sempre l’unica terapia
Il numero delle persone colpite da diabete di tipo I è in aumento in tutto il mondo: con una prevalenza più alta tra i giovani europei. Si tratta della forma autoimmune della malattia, diversa da quella cosiddetta senile, nota anche come diabete di tipo II. «Continuando di questo passo, i bambini malati con meno di cinque anni raddoppieranno nel 2020, rispetto al 2005», affermava qualche anno fa un gruppo di ricercatori su The Lancet. Il problema riguarda anche l’Italia, dove la casistica ha già bissato il traguardo del 1990: senza una causa definita. Per tutti questi pazienti - sono più di trecentomila lungo la Penisola - finora non c’è stata alternativa alla terapia insulinica. Ma la ricerca è al lavoro per trovare altri rimedi. Quanto sono realmente vicini?
UNA SOLUZIONE DALLE STAMINALI?
L’ultima speranza deriva dall’impiego di cellule staminali embrionali per la ricostituzione delle cellule beta del pancreas, localizzate - assieme ad altre cellule secernenti - nelle isole del Langherans. È la loro mancata attività, provocata da un attacco “anomalo” da parte del sistema immunitario, a causare la malattia: dal decorso irreversibile. La mancata secrezione dell’insulina, regolatore della concentrazione degli zuccheri nel sangue, è alla base dell’incapacità dell’organismo di far entrare nelle cellule il glucosio liberato dagli alimenti. In un futuro non imminente, però, il sistema potrebbe essere ripristinato.
Le cellule beta, infatti, sono state riprodotte in laboratorio a partire da staminali embrionali, dotate della capacità di differenziarsi in qualsiasi tipo cellulare. La scoperta è stata anticipata dalla Cell: «Si tratta di un gigantesco passo in avanti», hanno affermato i ricercatori, che in laboratorio hanno ricreato le cellule beta - quasi 150 milioni - creando il giusto equilibrio tra i reagenti, per poi metterle in funzione nel pancreas dei topi, con risultati confortanti a medio termine. L’insulina è stata nuovamente prodotta e la glicemia, di conseguenza, non ha superato più i livelli di guardia.
L’OSTACOLO
Oltre alla dovuta cautela da porre nei confronti di uno studio condotto in vitro, resta da trovare la risposta a un quesito: com’è possibile escludere un nuovo “attacco” da parte del sistema immunitario? «Non è un’eventualità da trascurare - dichiara Lorenzo Piemonti, responsabile dell’unità di ricerca di biologia delle cellule beta del Diabetes Research Insistitute dell’ospedale San Raffaele di Milano -. Per la prima volta è stato creato l’ultimo step di differenziazione di cellule beta. Ma i passi da compiere sono ancora diversi: non sappiamo quanto queste possano resistere nell’uomo né come inocularle. Quando parliamo di staminali totipotenti, non dobbiamo dimenticare di avere di fronte cellule che possono subire anche delle evoluzioni neoplastiche. Sarà perciò necessario tenerle sempre sotto controllo per rimuoverle, se necessario».
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ALTRE IPOTESI
Se per ricostituire le cellule beta in laboratorio o ricorrere a un device in grado di fungere da pancreas artificiale sarà necessario attendere ancora, i progressi tangibili sono rappresentati dalla sofisticazione dell’insulina esogena, che in futuro sarà applicata su biomateriali in grado di rilasciarla automaticamente al calare della glicemia. Già in uso nella pratica clinica è invece il trapianto di isole pancreatiche: sulla sua efficacia non vi sono dubbi, ma il numero di interventi è limitato dalla scarsa disponibilità di organi cui attingere per avere un adeguato numero di cellule sane e dalla necessità di proteggere i pazienti dalle reazioni di rigetto. «Ma c’è anche un problema legati ai costi - chiosa Piemonti -. A oggi l’intervento non è pagato né dal paziente né dal sistema sanitario. Chi vi si sottopone dev’essere inserito negli studi clinici, per fare in modo che sia il centro a cui si rivolge (in Italia, oltre al San Raffaele, il Niguarda di Milano e l’Ismett di Palermo, ndr) a sostenere i costi dell’operazione».
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Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).