Luigi Fiorenzo Festi, esperto in medicina di montagna e emergenza, spiega come prevenire e riconoscere il malessere durante escursioni in quota
Vorrei trascorre una vacanza in alta quota, in vista della prossima estate. Quali sono i comportamenti corretti per non incorrere nel ‘mal di montagna’?
Giuseppe F, Catania
Risponde Luigi Fiorenzo Festi, esperto in medicina di montagna e emergenza, Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi di Varese, Presidente della Commissione Medica Centrale del Club Alpino Italiano
Il male acuto di montagna (Ams), meglio noto come mal di montagna, è un problema che non conosce stagioni, può colpire sia in inverno che d’estate. Infatti non è legato alla presenza o assenza di alcuni elementi naturali o ambientali, ma piuttosto a una sofferenza organica dovuta alla diminuzione di ossigeno nell’aria che il corpo avverte salendo di quota, specie se l’ascesa avviene in maniera repentina e senza un acclimatamento graduale.
Sulla possibilità di incorrere nel mal di montagna incide anche la suscettibilità individuale, ovvero la personale predisposizione a sviluppare la problematica, come dimostrato da uno studio, condotto in alta quota, oltre i 4.500 metri, su un gruppo di più di 800 alpinisti. È tuttavia possibile allontanare il rischio adottando alcuni corretti comportamenti nell’esposizione all’alta quota. Le più recenti indicazioni fornite da Peter Baertsch, professore emerito di medicina interna dell’Ospedale Universitario di Heidelberg e uno dei massimi esperti al mondo in malattie di montagna, raccomandano che durante l’ascesa si stazioni più giorni ad altezze uguali o maggiori di duemila metri e che si facciano escursioni di un giorno sopra i 2.500-3.000 metri. Moderata e graduale deve essere anche la velocità con cui si raggiunge la vetta, ovvero è necessario percorrere non oltre 300-500 metri al giorno sopra i 2.500-3.000 metri con un giorno di pausa ogni quattro giorni circa, iniziando una eventuale terapia farmacologica alla comparsa dei primi sintomi per evitare che il mal di montagna evolva in un edema cerebrale d’alta quota, spesso letale.
Ci sono chiari sintomi che indicano ipossia, ovvero un organismo in carenza di ossigeno, quali cefalea, inizialmente di grado moderato, eventualmente accompagnata da affanno, nausea, vertigini e difficoltà di equilibrio, stanchezza e insonnia caratterizzata da una difficoltà di addormentamento, eccitazione, ripetuti risvegli notturni. Di norma questi sintomi compaiono con lieve entità da quattro a dodici ore dopo l’ascesa a quote superiori a 2.000-2.500 metri, nel 10-25% delle persone non correttamente acclimatate, mentre a quote superiori, intorno ai 4.500-5.000 metri, la sintomatologia può interessare dal 50 all’85% degli individui non acclimatati, con manifestazioni invalidanti e sensibile riduzione delle performance fisiche, anche in soggetti allenati. Nella maggior parte dei casi i sintomi regrediscono da soli risolvendosi in un paio di giorni, ma se così non fosse è necessario rivolgersi a un medico e scendere immediatamente di quota di almeno 500-1.000 metri.
In taluni casi infatti è possibile assistere all’evoluzione della sintomatologia verso l'edema cerebrale d'alta quota, caratterizzato da incoordinazione nei movimenti volontari (atassia), progressiva perdita di coscienza, fino alle manifestazioni più estreme con coma e esito letale. Il primo segnale di peggioramento da non sottovalutare, e che può fare sospettare un eventuale sviluppo di un edema cerebrale d'alta quota, è la cefalea che non risponde ai comuni analgesici e la comparsa di vomito. Nella maggior parte dei casi il mal di montagna è trattabile farmacologicamente (anche in via preventiva), con una terapia che prevede, con sintomi lievi o moderati, un giorno di riposo in altitudine e farmaci sintomatici, in particolare analgesici per la cefalea ed antiemetici per il controllo del vomito e la somministrazione di acetazolamide. Si tratta di un farmaco utilizzato in passato come diuretico che può aiutare il processo di acclimatamento, rallentando cioè l’assorbimento dei bicarbonati nei reni e stimolandone l’eliminazione attraverso le urine con un conseguente riequilibrio dell’anidrite carbonica nel sangue, con dosaggi variabili a seconda del rischio individuale moderato o elevato o della gravità della sintomatologia. Ancora una prevenzione farmacologica con acetazolamide, efficace nel 50% dei casi, è indicata laddove non sia possibile mantenere una giusta progressione di salita per necessità lavorative o professionale, come nel caso di lavoratori in cantieri in alta quota, di elicotteristi, di soccorritori e così via. Mentre con sospetto di HACE può essere necessaria una terapia cortisonica, la somministrazione di ossigeno e la presenza del medico. Come ultima indicazione, ma non meno importante, oltre al tempo di acclimatamento e alla velocità di ascesa, durante il percorso verso la vetta è sconsigliato l’uso di qualsiasi tipo di alcolici mentre è raccomandato bere almeno due litri di acqua al giorno, necessari ad evitare la disidratazione.
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