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Agnese Collino
pubblicato il 25-07-2016

Comprendere i difetti della connessione fra neuroni nell’Angelman



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È l’obiettivo di Ilaria Tonazzini: chiarire come l’interazione fra due molecole alla base della plasticità del cervello causi questa rara sindrome neurologica

Comprendere i difetti della connessione fra neuroni nell’Angelman

 

La Sindrome di Angelman è una malattia neurologica, di origine genetica, caratterizzata da grave ritardo mentale e epilessia, che inizia a manifestarsi pochi mesi dopo la nascita e colpisce un bambino ogni 10-20 mila. La causa della Sindrome di Angelman e di altri gravi disturbi neurologici è il malfunzionamento dell’ubiquitina ligasi E3A (UBE3A), proteina con un ruolo chiave nella plasticità del cervello. Tuttavia il contributo specifico di UBE3A non è stato ancora chiarito. Di questo si occupa Ilaria Tonazzini (nella foto), laureata in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche e dottorata in Scienza del farmaco e delle sostanze bioattive all’Università di Pisa, oggi ricercatrice presso il National Enterprise for nanoScience and nanoTechnology (NEST), Istituto Nanoscienze del CNR e Scuola Normale Superiore di Pisa grazie a Fondazione Umberto Veronesi. 

Ilaria, di che cosa si occupa il tuo progetto?

«Per poter trasmettere segnali all’interno del cervello, i neuroni stabiliscono connessioni fra di loro costituendo una vera e propria rete. Grazie ad una precedente borsa di Fondazione Veronesi, l’anno scorso ho studiato i meccanismi di guida di contatto in neuroni sani e affetti da sindrome di Angelman. I risultati, appena pubblicati su una rivista scientifica, hanno evidenziato difetti nella guida topografica e nella connettività dei neuroni malati. Questo aspetto patologico è risultato legato al malfunzionamento della via di segnale delle adesioni focali, aggregati di proteine che funzionano come sensori dell’ambiente esterno alle cellule. Recentemente è stata scoperta l’interazione di UBE3A con miR-134, un microRNA che regola la plasticità neuronale e che a sua volta interferisce con la via di segnale delle adesioni focali. A oggi l’attività di miR-134 non è ancora stata studiata nella sindrome di Angelman. Grazie ad una nuova borsa di Fondazione Veronesi, quest’anno i miei obiettivi saranno: studiare i livelli di miR-134 sia in modelli neuronali che in campioni di pazienti e testare strategie terapeutiche che agiscano su miR-134 e sulle vie di segnale coinvolte nei meccanismi di guida neuronale, con lo scopo di recuperare il deficit di connettività che abbiamo osservato nei neuroni malati».

Quali prospettive apre per la conoscenza biomedica e per la salute umana questo progetto?

«I risultati di questa ricerca possono portare all’identificazione dinuovi bersagli terapeutici per la sindrome di Angelman, una sindrome rara per la quale oggi non esiste una cura, ed anche per altre sindromi autistiche che coinvolgono UBE3A».

Sei mai stato all’estero a fare un’esperienza di ricerca?

«Durante il mio dottorato ho avuto l’opportunità di lavorare per un periodo sia al Karolinska Insitutet di Stoccolma (Svezia) sia al Centro di biologia molecolare e neuroscienze dell'Università di Oslo. Durante il periodo successivo al dottorato di ricerca ho instaurato una collaborazione con un gruppo olandese, per cui sono stata a lavorare varie volte per brevi periodi all'Erasmus Medical Center di Rotterdam».

Cosa ti ha lasciato questa esperienza? Ti è mancata l’Italia?

«Un aspetto molto bello del fare ricerca è proprio la possibilità di poter fare (anzi, quasi dover fare) esperienze all’estero, dove si ha la possibilità di confrontarsi con realtà diverse e crescere sia professionalmente che umanamente. Le esperienze all’estero mi hanno arricchito tantissimo, ho conosciuto tante persone e instaurato delle belle amicizie. Dell’Italia mi sono mancati la famiglia e gli amici, per tutto il resto in Europa si vive e lavora molto bene».

Raccontaci un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare e uno invece da dimenticare.

«Un momento felice è stato quando ho vinto la borsa Fondazione Veronesi con un progetto a cui tengo molto: una gran bella soddisfazione. Di momenti da dimenticare ce ne sono parecchi, tanti momenti di scoraggiamento per esperimenti che non vengono o altri momenti di difficoltà per cercare una nuova posizione».

Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?

«L’idea di fare ricerca mi è sempre piaciuta, fin da quando mi sono iscritta all’università. In particolare amo l’idea di dare un contributo per capire i meccanismi cellulari e le malattie che oggi non hanno cura, e spero che la mia piccola “goccia di ricerca” possa un giorno essere utile per sviluppare qualche terapia».

C’è stata una figura che ti ha ispirato nella tua vita personale e professionale?

«Una è stata la mia Tutor durante il dottorato, l’altra la professoressa norvegese nel cui laboratorio ho svolto il periodo di ricerca ad Oslo. Due donne, con figli, che si sono impegnate molto nell’ambito della ricerca e sono riuscite a farcela, diventando entrambe professori ordinari».

Se dovessi scommettere su un filone di ricerca biomedica che fra 50 anni avranno prodotto un concreto avanzamento e innovazione per la salute, su cosa punteresti?

«Secondo me tra 50 anni avremo un miglioramento per la salute grazie alla nanomedicina (pensiamo ad esempio ai farmaci mirati) e all’applicazione delle nanotecnologie nella medicina rigenerativa».

Cosa ne pensi dei “complottisti” e delle persone contrarie alla scienza per motivi “ideologici”?

«Io penso che manchi una cultura scientifica di base, e che troppo spesso conclusioni di dubbia origine vengano messe sullo stesso piano di ricerche scientifiche serie. Per fare un esempio, nonostante quanto si senta dire spesso, oggi la sperimentazione animale è ancora necessaria, sia per la ricerca di base sia per testare nuovi farmaci. Io lavoro nell’ambito dello sviluppo di materiali e supporti innovativi per meglio riprodurre in vitro le condizioni reali delle cellule in un corpo. Penso che questo ambito sia molto importante e che nel prossimo futuro ci permetterà molti avanzamenti nella conoscenza scientifica. Ciononostante non possiamo fare a meno della sperimentazione in vivo che ci permette di raggiungere un diverso (e maggiore) grado di complessità che è irrinunciabile. Forse tra 50 anni potremo avere dei sistemi in vitro supercomplessi che riproducono interi organi, ma comunque difficilmente un intero organismo».

Hai famiglia?

«Si sono sposata e ho due bambini, uno di 7 anni ed una di 4. E non è semplice gestire il tutto».

Se un giorno uno dei tuoi figli ti dicesse che vuole fare il ricercatore, come reagiresti?

«Con mia figlia ne parliamo ogni tanto, e io ci scherzo. Infatti le dico che è importante studiare (soprattutto le materie scientifiche), ma che poi non deve finire a fare la ricercatrice da grande, specie in questo paese, perchè è un lavoro poco riconosciuto e malpagato per quanto bellissimo. In realtà, se da grande mia figlia volesse fare ricerca in cuor mio ne sarei molto molto fiera».


@AgneseCollino 

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