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Francesca Borsetti
pubblicato il 04-05-2021

Colpire le cellule staminali del melanoma uveale



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Le cellule staminali metastatiche potrebbero diventare un bersaglio per la cura del melanoma uveale: è quello che punta a verificare la ricerca di Sara Rezzola

Colpire le cellule staminali del melanoma uveale

Il melanoma uveale è un tumore raro, con un’incidenza inferiore ai 10 casi per milione di persone in un anno. Colpisce l’uvea e l’iride, tessuti ricchi di vasi sanguigni e di melanociti all’interno dell’occhio, con diverse funzioni importanti per la nostra vista. Circa 1 paziente su 2 sviluppa metastasi durante il decorso della malattia (anche se la prognosi dipende molto dalla precocità delle terapie) e, a oggi, non sono disponibili cure specifiche per gli stadi avanzati della malattia.

 

Alcuni studi recenti hanno evidenziato la presenza di cellule staminali tumorali all’interno del melanoma uveale: questa popolazione cellulare è particolarmente resistente ai chemioterapici tradizionali e in altri tumori è correlata all’insorgenza di recidive e metastasi; per questi motivi, tuttavia, potrebbe diventare un bersaglio terapeutico per lo sviluppo di nuovi farmaci.


Sara Rezzola, ricercatrice all'’Università degli Studi di Brescia, studia l’efficacia di una nuova molecola in grado di bloccare la crescita tumorale nelle cellule staminali metastatiche. La sua attività è sostenuta nel 2021 da una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi.

 

Sara, di cosa tratta il tuo progetto di ricerca?

«Mi occupo di un tumore oculare raro, sconosciuto ai più: il melanoma uveale. Con il termine melanoma si identifica il tumore delle cellule pigmentate della cute. In rari casi, questa malattia può colpire alcune zone dell’occhio, come l’iride, prendendo il nome di melanoma uveale. Questo cancro ha una prognosi infausta in circa 1 paziente su 3 a causa della formazione di metastasi, per lo più al fegato».

 

Quali sono gli aspetti da approfondire?

«Quando insorgono metastasi purtroppo non esiste una terapia farmacologica specifica e occorre individuare nuove strategie di cura. Recentemente all’interno del melanoma uveale - così come in passato è avvenuto per altri tipi di cancro - sono state individuate le cosiddette cellule staminali tumorali. Si tratta di una popolazione di cellule con meccanismi di sopravvivenza potenziati, in grado di rendere il tumore resistente ai chemioterapici, originando recidive e favorendo le metastasi».

 

Come intendete portare avanti il vostro progetto durante quest’anno?

«L’obiettivo del mio progetto è quello di valutare il potenziale terapeutico di una nuova molecola che colpisce selettivamente la popolazione staminale tumorale, bloccando uno specifico fattore di crescita, il Fibroblast Growth Factor (FGF). Nei prossimi mesi studieremo i meccanismi biologici che permettono di inibire FGF e i suoi recettori, con la speranza di poter poi arrivare a colpire le cellule staminali tumorali».

 

In che modo questo studio potrebbe essere importante, anche nel lungo periodo, per la conoscenza biomedica?

«Il melanoma uveale è un tumore raro e - come tale - purtroppo ancora troppo poco studiato. Questi ambiti sono di norma scarsamente attrattivi per chi eroga finanziamenti. Il sostegno di Fondazione Umberto Veronesi a favore della ricerca di base diventa quindi essenziale. La comprensione dei meccanismi patologici che guidano l’evoluzione di questo tumore è decisiva per lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici».

Sei mai stata all’estero per un’esperienza professionale come ricercatrice?

«No, ho trascorso solo pochi giorni a Francoforte per imparare una tecnica messa a punto in un laboratorio. Ho deciso di sposarmi molto giovane: avevo 24 anni e mi ero laureata l’anno prima. Ho voluto combinare l’ambizione e l’enorme passione per il mio lavoro con il desiderio di avere una famiglia. Dal 2016 sono mamma di Viola, una bambina molto sveglia e simpatica, ma anche una piccola peste. Sono consapevole che non aver fatto un’esperienza all’estero sia un limite e sono convinta che per me sarebbe stata un’ottima opportunità di crescita. Tuttavia, non rimpiango le scelte fatte che mi hanno resa quella che sono oggi».

 

Ricordi l’episodio in cui hai capito che la tua strada era quella della scienza?

«Nel mio percorso ci sono stati almeno tre momenti chiave. Ho deciso di diventare una scienziata da bambina, guardando la pubblicità della Mellin e desiderando un giorno di poter indossare un camicie e usare un microscopio come faceva quella giovane donna in televisione. Il momento in cui ho capito di aver scelto la strada giusta è stato durante il corso di biologia del primo anno di biotecnologie, grazie alle lezioni di una professoressa incredibilmente appassionata. Infine, mi sono convinta che non avrei potuto fare un lavoro diverso da questo durante il mio dottorato, quando finalmente ho iniziato a fare scienza sul serio».

 

Dove ti vedi fra dieci anni?

«Mi piace immaginarmi al lavoro sotto cappa, alle prese con le mie amate cellule».

 

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Fare ipotesi e cercare di capire come funzionano determinati meccanismi biologici. Sono una persona molto curiosa».

 

Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«Vita. Sia la mia - in buona parte dedicata a questo lavoro - sia quella degli altri, la cui qualità può essere migliorata dalla ricerca scientifica».

 

Cosa avresti fatto se non avessi fatto la ricercatrice?

«La verità è che non riesco a immaginarmi in un contesto diverso da questo».

 

Sara, qual è per te il senso profondo che ti spinge a fare ricerca?

«Io credo che questo sia il mio modo per fare del bene. Sfruttando le mie inclinazioni naturali tento di dare il mio apporto alla società, anche se sono perfettamente consapevole che il mio contributo è minimo».

 

E in che modo e da chi, secondo te, potrebbe essere aiutato il lavoro di chi fa scienza?

«Credo che uno dei più grandi limiti di questo lavoro sia la mancanza di fondi. Ritengo che un maggiore investimento economico istituzionale nella ricerca, anche e soprattutto quella di base, si tradurrebbe in una crescita socioeconomica del Paese. Mi piacerebbe che alla ricerca scientifica venisse riconosciuto questo valore».

 

Pensi che ci sia un sentimento antiscientifico in Italia?

«A giudicare da ciò che una parte di popolazione pensa in merito al vaccino anti-Covid 19, direi che purtroppo la fiducia scarseggia».

 

Cosa fai nel tempo libero? Hai qualche hobby?

«Da un paio d’anni pratico l’immersione subacquea. È stata una scoperta che ha rivoluzionato le mie abitudini. Quando mi immergo riesco a staccare da tutto il resto. In quel momento contano solo il suono del mio respiro e le meraviglie che mi circondano».

 

Se un giorno tua figlia ti dicesse che vuole fare la ricercatrice, come reagiresti?

«Viola sarà libera di fare ciò che più desidera. Al momento è piuttosto convinta di diventare una ballerina».

 

Sara, qual è la cosa di cui hai più paura?

«Da quando sono diventata mamma ho paura di tante cose».

 

La cosa che più ti fa arrabbiare?

«L’approssimazione e la disorganizzazione».

 

E quella ti fa ridere a crepapelle?

«Ho uno strano senso dell’umorismo: mi fanno tanto ridere le freddure, quando le capisco».

 

Un ricordo a te caro di quando eri bambina?

«Ogni estate i miei genitori organizzavano una gita a Gardaland, un parco divertimenti sul lago di Garda. Ricordo la forte emozione come se fosse ieri. Con mio marito abbiamo deciso di continuare la tradizione e ora, in occasione del compleanno di Viola, ci prendiamo un giorno di ferie e andiamo tutti insieme a Gardaland».

 

Qual è il tuo libro preferito?

«È “I pilastri della terra” di Ken Follett, ma amo tantissimo anche “Orgoglio e Pregiudizio” di Jane Austen».

 

Sara, cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Grazie, grazie e ancora grazie. Prometto di impegnarmi al massimo per far sì che il vostro sforzo non sia vano».

 

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