L'autorevole The Lancet lancia l'allarme: nel nuovo Manuale internazionale di psichiatria vogliono includere il dolore per la morte di una persona cara nella depressione e trattarlo con i farmaci. I dubbi e i pareri di due grandi esperti
L’autorevole “The Lancet” lancia l’allarme: nel nuovo Manuale internazionale di psichiatria vogliono includere il dolore per la morte di una persona cara nella depressione e trattarlo con i farmaci. I dubbi e i pareri di due grandi esperti
Il lutto diventa una malattia, da curare al pari di una qualunque depressione? Il dolore umano, umanissimo, per la perdita di una persona cara, verrà ridotto a disfunzione psichiatrica da affrontare con pillole e gocce? A lanciare l’allarme sulla “sacrilega” commistione, perché non venga perpetrata, è The Lancet, rivista scientifica internazionale di grande autorevolezza, con un editoriale in cui raccoglie i “si dice” sulla prossima edizione, la V, del Manuale diagnostico di Psichiatria, Dsm, la “bibbia” degli psichiatri in tutto il mondo che certifica, disturbo per disturbo, i sintomi e le norme di terapia da seguire. Ebbene, da quanto trapela dai lavori in corso, nel Dsm-V salterebbe la linea di demarcazione tra lutto e depressione. La cura con antidepressivi si imporrebbe dopo due settimane di continuo umor nero, punto e basta. Non importa (parrebbe) se due settimane - o due mesi prima - la persona ha subito una grave perdita.
DIBATTITO IN CORSO- «Sì, c’è dibattito sull’argomento, se ne è parlato anche al recente congresso della Società di Psicopatologia», ammette Giovanni B. Cassano, professore emerito di psichiatria all’Università di Pisa. «Ma nessuno ha mai pensato di incamerare il lutto nella depressione. Penso che nel Dsm-V usciranno criteri più stringenti di distinzione tra i due tipi di dolore». Ma ha senso medicalizzare il lutto? «Il lutto è una reazione fisiologica a una perdita, è vero. Però io chiedo: ha senso medicalizzare il sesso con il Viagra? Se si individuasse una forma di lutto per cui ci fosse una pillola specifica senza effetti collaterali, perché no?».
CURARE LA PARTE MALATA- Lei personalmente, professor Cassano, come si comporta se viene da lei una persona disperata per un lutto? «Cerco di capirne i livelli di angoscia, di ansia, se ha idee di suicidio, se dorme, se ha smesso di mangiare, se ha abbandonato il lavoro, poi l’anamnesi: se ha già avuto depressioni o se disturbi psichiatrici circolano nella famiglia di origine. Così vedo se quell’uomo o quella donna è a rischio grave di depressione o di anoressia o di fobie e intervengo con una cura su questi aspetti». Nel Dsm attuale, si parla di “lutto complicato” come patologia. Quando cioè il lutto innesca e “degenera” in una depressione senza fine o altri disturbi. Se dura insomma oltre i sei mesi. Ma si può misurare il lutto? «Si dice che dopo sei mesi dovrebbe cominciare a ridursi. Ma è ben diverso se perdi il vecchio padre o se la morte riguarda un figlio. Io seguo per esempio una signora di 70 anni che ha perso il figlio di 50 da alcuni anni e non si dà pace. Ma si può capirlo…». The Lancet finisce la sua esortazione così: «A chi è in lutto i dottori dovrebbero offrire tempo, compassione, empatia, piuttosto che pillole».
NON SOLO PILLOLE- Il professor Franco Garonna, primario dei Servizi di psichiatria di Mestre, non dissente ma: «Io ai medici di base dico per i casi di lutto: non date solo pillole». Specifica: «Da un punto di vista biologico intervengono gli stessi meccanismi cerebrali nel lutto e nella depressione maggiore, ma la qualità del dolore è diversa e chi soffre per una perdita affettiva lo distingue chiaramente. C’è una mia paziente rimasta vedova che dice: ho provato un grande dolore, ma mai un giorno di depressione. Un lutto importante va innanzitutto ascoltato e pure aiutato nei limiti del possibile. Perché il medico, se interpellato, le pillole le dà. Per esempio, per il recupero del sonno. Ma non dia solo quelle».
Serena Zoli