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Oncologia
Donatella Barus
pubblicato il 04-02-2025

I tumori e le disuguaglianze che ancora dividono i pazienti in Italia



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Così reddito, istruzione e posizione sociale influenzano l'incidenza e la sopravvivenza ai tumori nel nostro Paese. Il commento di Massimo Florio: «La differenza di incidenza e mortalità è una patologia sociale»

I tumori e le disuguaglianze che ancora dividono i pazienti in Italia

Quali sono in Italia le disuguaglianze più evidenti nel rischio di ammalarsi di tumore e nelle opportunità di guarire? Da che cosa dipendono e che cosa si può fare per attenuarle? In Italia ci sono circa 390.000 persone che ogni anno si ammalano di tumore. Oltre la metà di loro hanno la prospettiva di guarire, ovvero di superare la malattia con una speranza di vita sovrapponibile a quella dei loro coetanei che un tumore non l’hanno avuto. È un dato che migliora nel tempo, non in modo uniforme ma con profonde differenze a seconda del tipo di diagnosi, ma anche fra popolazioni e persone diverse.

 

DISUGUAGLIANZE E MALATTIA

Alcuni dati, macroscopici, emergono dall’ultimo rapporto “I numeri del cancro”, diffuso dall’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM) con la collaborazione fra gli altri dei Registri Tumori (AIRTUM) e dei sistemi di Sorveglianza dell’Istituto Superiore di Sanità PASSI e PASSI d’Argento. Li abbiamo ripercorsi insieme a Massimo Florio, Professore emerito di Scienza delle Finanze presso l’Università degli Studi di Milano, con un’esperienza a livello nazionale e internazionale di economia della salute e politiche sanitarie, e componente del Forum Disuguaglianze e Diversità. «La differenza di incidenza e mortalità è una patologia sociale – esordisce il professor Florio – laddove malattia e morti potrebbero essere evitate perché la prevenzione e la cura sono diverse a seconda dello status delle persone».

 

LA PREVENZIONE

Partiamo dal primo livello: la prevenzione primaria, quel nesso fra comportamenti, stili di vita, fattori di rischio e probabilità di sviluppare un tumore. Nel rapporto si citano i dati dei Sistemi di sorveglianza PASSI e PASSI d’argento, che monitorano alcune abitudini degli adulti in Italia. Che cosa dicono? Ad esempio che:

  • fumano più le persone con difficoltà economiche (il 36% rispetto al 21% fra chi non ne ha) o con bassa istruzione (il 26% fra chi ha la licenza elementare e il 18% fra i laureati)
  • la sedentarietà aumenta (riguardava il 23% della popolazione nel 2008 e nel 2023 il 25%) un po’ per tutti, ma aumenta più rapidamente fra i giovani, le persone del Sud e del Centro e fra le persone con maggiori difficoltà economiche
  • l’obesità tocca il 18% delle persone con molte difficoltà economiche e solo il 9% fra chi non ne riferisce.
  • mangiamo tutti poca frutta e verdura e le famose cinque porzioni al giorno le consumano più le donne degli uomini, più gli over 50 dei giovani, più le persone con capacità economiche di quelle con difficoltà (47% rispetto al 40%), più i laureati (51%) di chi ha la licenza elementare (40%); più i residenti al Centro-Nord (48-50%) rispetto al Sud (41%).
 

IL RUOLO DELL’EDUCAZIONE

«Il discorso su prevenzione e fattori di rischio che sono in gran parte modificabili o evitabili spesso tende a colpevolizzare chi adotta comportamenti scorretti. Invece bisogna rendersi conto che è un discorso profondamente correlato al livello socioculturale e dunque anche al livello di reddito» osserva Massimo Florio. «In un paese come l’Italia le differenze culturali sono particolarmente importanti. Il numero di laureati è fra i più bassi in Europa. I risultati delle Rilevazioni OCSE PISA sulla comprensione dei testi e dei numeri ci vede agli ultimi posti in Europa. E questo ci conferma che non siamo di fronte solo ad una carenza di qualificazione formale, ovvero di pochi diplomi o lauree. Mancano proprio le abilità».

 

PARTIRE DALLA SCUOLA (E DAI SOCIAL)

«Per questo motivo – prosegue il professor Florio - una lettura dei comportamenti individuali da sola non coglie nel segno. Dietro ci sono fattori economici, sociali e culturali più ampi da considerare. Dunque si può avere un approccio “illuministico” e ritenere che l’educazione alla prevenzione delle patologia sia risolutiva. Ma se ci sono difficoltà di comprensione dei testi e dei messaggi che si utilizzano, il risultato non si raggiunge. Pensiamo alla poca informazione sull’alcol, o sulle malattie sessualmente trasmesse. È cruciale tenere in considerazione la capacità delle persone di elaborare le informazioni, che viene prima delle informazioni stesse. Che senso ha dire “in queste circostanze hai un rischio ridotto del 30 per cento di ammalarti” se chi ci legge non comprende che cos’è una percentuale?».

E come si fa? «Oggi è necessario comprendere il bilanciamento fra i luoghi di apprendimento istituzionali, come la scuola, e i meccanismi comunicativi del mondo reale, come ad esempio i social media. C’è innanzitutto un problema di strategia sulla scuola, ma anche una scarsissima attenzione ai contenuti veicolati attraverso i social media, che per la gran parte delle persone oggi sono l’unica fonte di informazione e di contenuti. Ce ne siamo accorti durante la pandemia: ciò che passava dai canali tradizionali era una frazione infinitesimale di quanto passava dai social media».

 

GLI SCREENING

Il secondo livello è quello della prevenzione secondaria, ovvero della diagnosi precoce, la capacità di intercettare precocemente una malattia tumorale. Ogni anno i rapporti dell’Osservatorio nazionale screening confermano un divario fra regioni nella copertura e nell’adesione agli screening organizzati nell’ambito del Servizio sanitario nazionale. I dati vanno migliorando ma ancora per la mammografia la copertura è del 62% al Nord, 51% al Centro e 31% al Sud e alle Isole. Per lo screening per i tumori colorettali i dati sono insoddisfacenti per tutti: Nord (45%), Centro (32%), Sud e nelle Isole (15%). «Anche in questo caso – commenta Massimo Florio - , la base è la capacità delle persone di capire che cosa succede e diminuire i rischi. Prendiamo ad esempio lo screening per i tumori del colon-retto, un esame da pochi euro che si è dimostrato estremamente efficace per ridurre la mortalità per tumori del colon. Ci sono differenze evidentissime fra Nord e Sud, un grande tema, in Italia non adeguatamente presidiato. Chi si deve occupare della prevenzione? I medici di medicina generale? Chi è che fra loro ha ricevuto le risorse per comunicare seriamente ai suoi 1.200-1.300 assistiti l’utilità del test del sangue occulto nelle feci?».

 

CURA E RICERCA: SERVONO DATI CONDIVISI

Infine la cura, terzo livello. «Anche qui i dati hanno molte cose da dire. Vorrei citare un recentissimo editoriale di The Lancet, intitolato “The Italian Health Data System”, che identifica una delle principali debolezze del sistema sanitario italiano nella “frammentata infrastruttura dei dati sanitari. Non esiste un sistema unificato e centralizzato per la documentazione e la condivisione delle cartelle cliniche elettroniche (EHR), dei dati ospedalieri e delle cartelle cliniche dei medici di base”. Ci sono 21 autorità sanitarie (considerando le due province autonome di Trento e di Bolzano) che non sempre comunicano in modo efficace fra loro. Il fascicolo sanitario elettronico, il sistema che dovrebbe tracciare le storie cliniche dei pazienti italiani, resta implementato in maniera diseguale e comunque con una scarsa interoperabilità fra regioni diverse e fra ospedali diversi. I Registri tumori non hanno basi di dati adeguate, non si parlano fra loro, nonostante i flussi di pazienti fra regioni. Capita così che quando in Lombardia o in Veneto arriva un paziente dalla Calabria, si riparta da zero. Spesso le informazioni sono quelle che il paziente porta con sé nella cartellina, utili dal punto di vista della cura, ma poi sul piano del monitoraggio viene a mancare la base dati. È un aspetto cruciale per un paese in cui la mobilità interregionale costa 3,3 miliardi di euro l’anno».

«Tutto ciò – conclude il professor Florio - ha effetti importanti anche sul problema della ricerca: un sistema in cui i trial clinici debbono avere a che fare con comitati etici diversi rende estremamente costosi i trial clinici randomizzati multicentrici e sappiamo che la ricerca moderna si basa sulle evidenze. Se non tuteliamo l’integrazione e la condivisione dei dati sanitari a livello almeno nazionale, rischiamo di compromettere l’accesso equo all’innovazione terapeutica, rallentando i progressi nella lotta contro il cancro e ampliando ulteriormente le disuguaglianze esistenti.»

Donatella Barus
Donatella Barus

Giornalista professionista, dirige dal 2014 il Magazine della Fondazione Umberto Veronesi. E’ laureata in Scienze della Comunicazione, ha un Master in comunicazione. Dal 2003 al 2010 ha lavorato alla realizzazione e redazione di Sportello cancro (Corriere della Sera e Fondazione Veronesi). Ha scritto insieme a Roberto Boffi il manuale “Spegnila!” (BUR Rizzoli), dedicato a chi vuole smettere di fumare.


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