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Neuroscienze
Caterina Fazion
pubblicato il 28-06-2022

Come parlare ai malati?



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Una comunicazione negativa da parte dei medici mortifica, colpevolizza e sminuisce i pazienti. Effetti sul cervello paragonabili al dolore fisico. Ecco cosa non fare

Come parlare ai malati?

Il linguaggio medico obsoleto e negativo rischia di sminuire e colpevolizzare i pazienti compromettendo la relazione terapeutica e l’esito stesso delle cure. Complici i numerosi telefilm ambientati tra le corsie degli ospedali, siamo ormai abituati a questo tipo di linguaggio che, anche se familiare, può mortificare i malati, disincentivandoli ad affrontare un difficile percorso di cura. Per capire come invertire la rotta, ci viene in aiuto uno studio pubblicato recentemente sul British Medical Journal che si è proposto di descrivere questo linguaggio, suggerendo come modificarlo per favorire una relazione terapeutica incentrata su comprensione e obiettivi condivisi tra medico e paziente. Vediamo quali sono gli errori principali e come evitarli.

 

PRIMO: IL PAZIENTE SMINUITO

Il rischio più grande di una comunicazione negativa da parte dei medici è quello di sminuire il paziente, mettendo in dubbio la sua affidabilità e credibilità. È vero che i segni sono qualcosa di evidente e oggettivo come ad esempio una caviglia gonfia o un rush cutaneo, mentre i sintomi sono riferiti dal paziente, ma le frasi utilizzate andrebbero scelte con cura. Scrivere nella cartella clinica “il paziente nega febbre, brividi e sudore notturno” o “il paziente lamenta dolore” suggeriscono la volontà di distorcere la verità o la presenza di un atteggiamento petulante, tradendo sfiducia da parte del medico. Inoltre, dalla scelta dei verbi, risulta evidente il distacco tra paziente e medico che, invece, “osserva”, “nota”, “afferma” anche quando si tratta della sua percezione, in assenza di segni evidenti.

 

SECONDO: IL PAZIENTE PASSIVO

I pazienti potrebbero sentirsi particolarmente frustrati e infastiditi a causa di espressioni che conferiscono loro passività, mentre ai medici potere e autorità, sensazione che si percepisce chiaramente con l’espressione “il medico manda il paziente a casa”. Inoltre, in malattie come il diabete sentiamo spesso dire che il medico “proibisce” il consumo di un determinato alimento o che il controllo della glicemia è “buono” o “cattivo”, facendo sentire il paziente giudicato, proprio come a scuola.

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TERZO: IL PAZIENTE GIUDICATO

Altre espressioni potrebbero essere evitate come “il paziente non è compliante rispetto alla terapia” oppure “ha fallito la terapia”. Ci sono molti motivi, infatti, per cui un paziente potrebbe non aver seguito nel migliore dei modi la terapia prescritta, motivi per cui la cura potrebbe non aver avuto gli effetti desiderati, alle volte indipendenti dalla volontà dello stesso. In questo modo il medico attribuisce al paziente tutta la responsabilità, suggerendo di essere lui stesso la causa del fallimento, mettendo a repentaglio la relazione terapeutica tra medico e paziente e rischiando di avere risultati peggiori nel percorso di cura. I pazienti, infatti, sentendosi attaccati, offesi, mortificati, e giudicati saranno più propensi a saltare i futuri appuntamenti e avranno meno forze ed energie durante il percorso terapeutico.

 

COSA ACCADE NEL CERVELLO DEI PAZIENTI?

Quando una persona non si sente compresa, accettata e capita, e quando le sue necessità non sono soddisfatte, esattamente come quando un paziente riceve una comunicazione mortificante, giudicante e sminuente, si attivano nel cervello i medesimi circuiti che vengono reclutati durante la percezione del dolore. Una cattiva comunicazione, dunque, si percepisce come una ferita, non solo nello spirito. A provarlo è uno studio condotto dalla Fondazione Giancarlo Quarta Onlus in collaborazione con l’Università di Padova e con il Padova Neuroscience Center. «Abbiamo deciso di simulare, tramite alcune vignette lette dal paziente – spiega Fabio Sambataro, professore associato di psichiatria dell’Università degli Studi di Padova –, situazioni in cui un determinato bisogno sia soddisfatto o meno e, tramite risonanza magnetica funzionale abbiamo osservato cosa accade nel cervello».

 

GLI EFFETTI (CONCRETI) DI UNA COMUNICAZIONE SBAGLIATA

A tutti, soprattutto da bambini e da ragazzini, sarà capitato di sentirsi esclusi e non accettati, magari durante un gioco o una conversazione. Quando ciò accade, il nostro cervello riconosce il segnale di esclusione sociale e, una volta interpretato il fatto che il mio bisogno non è soddisfatto, sperimento delle emozioni negative di rabbia, tristezza, solitudine. «Ai partecipanti allo studio è stata mostrata una vignetta in cui il protagonista, a bordo di un treno, e in evidente difficoltà a causa di una pesante valigia, non solo non viene aiutato, ma è anche insultato da un altro passeggero», prosegue Fabio Sambataro. «Quando il paziente si immedesima, abbiamo notato, da principio, una minor comunicazione tra i due emisferi nel solco temporale superiore (ndr, area implicata nella percezione sociale e nel linguaggio). Questa diminuita sincronia potrebbe segnalare un comportamento “non sociale”. Inoltre, viene attivato il network cerebrale della salienza, ovvero l’attribuzione di significato ad uno stimolo, che attiva le medesime aree che si attivano durante l’elaborazione del dolore fisico; questo network segnala proprio la salienza di quella situazione che minaccia l’integrità della persona, analogamente al dolore. In questo caso si riferisce al ruolo dell’individuo dal punto di vista sociale ovvero di appartenenza al gruppo sociale. Il perdurare di questa situazione, alla lunga, può portare ad alienazione, isolamento e depressione. Se il mancato soddisfacimento dei bisogni dipende da una comunicazione non adeguata da parte dello specialista, si traduce nella rottura del rapporto di fiducia medico-paziente con implicazioni che vanno dalla minore aderenza alla terapia fino al doctor-shopping (prassi di rivolgersi a più medici per uno stesso problema di salute, ndr) e in ultima analisi a un impatto negativo sulla salute del paziente stesso».

 

COME MIGLIORARE LA COMUNICAZIONE

«Noi medici dovremmo chiedere al paziente come sta, come si sente e quali sono le sue paure», spiega il professor Sambataro. «Possono sembrare domande banali, ma se riuscissimo a normalizzare le difficoltà e i bisogni di un paziente, facendo capire loro che molti altri malati si trovano nella medesima situazione e hanno le stesse emozioni e preoccupazioni, potremmo aiutarli ad aprirsi e confidarsi, migliorando il rapporto di fiducia medico-paziente. Inoltre, dovremmo smetterla di enfatizzare situazioni negative e fallimenti, facendo invece emergere i lati positivi che sono quelli che ci aiutano ad andare avanti e a dare una prospettiva. Quando parliamo della prognosi a cinque anni dopo un tumore, cerchiamo di parlare di sopravvivenza, e non di mortalità».

 

ALLA FINE, UNO STESSO OBIETTIVO

Lo scopo ultimo di una migliore comunicazione dovrebbe essere quello di favorire il rapporto terapeutico, dove medico e paziente siano uniti per trovare una soluzione comune e di successo; naturalmente, anche il paziente deve impegnarsi al massimo delle sue possibilità per cercare di stare meglio. Assenza del giudizio, collaborazione e destigmatizzazione dovrebbero guidare questo nuovo approccio. Sarà allora che i medici smetteranno di riferirsi al paziente come “non compliante”, ma terranno in considerazione numerosi altri aspetti che potrebbero incidere come il fatto che le barriere all’aderenza includano i costi elevati dei numerosi farmaci, se si considera, ad esempio, la recente perdita del lavoro del paziente o il regime di assunzione teoricamente perfetto, ma incompatibile con la vita del paziente per ritmi di vita e lavorativi. 

Il linguaggio usato dai medici non nasce certo come offensivo o degradante e, se viene ancora utilizzato senza pensarci è per abitudine, prassi comune e tradizione, ma siamo sempre in tempo per cambiare.

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Caterina Fazion
Caterina Fazion

Giornalista pubblicista, laureata in Biologia con specializzazione in Nutrizione Umana. Ha frequentato il Master in Comunicazione della Scienza alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e il Master in Giornalismo al Corriere della Sera. Scrive di medicina e salute, specialmente in ambito materno-infantile


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