Risponde Sergio Berti, direttore dell’unità operativa complessa di cardiologia diagnostica e interventistica dell’ospedale di Massa Carrara e presidente della Società Italiana di Cardiologia Invasiva
Pasquale L. (Caserta)
Risponde Sergio Berti, direttore dell’unità operativa complessa di cardiologia diagnostica e interventistica dell’ospedale di Massa Carrara e presidente della Società Italiana di Cardiologia Invasiva
Il quesito è ricorrente, visto che ogni anno in Italia si affrontano più di 140mila interventi di angioplastica coronarica ed è aumentata la quota di adulti tra i 40 e i 50 anni vittime di una sindrome coronarica acuta. A questi pazienti, dopo l’intervento, viene somministrata una doppia terapia antiaggregante, che consiste nell’assunzione a vita dell’aspirina e di un altro farmaco fino ad almeno un anno dall’intervento. Obiettivo del trattamento è evitare l’aggregazione delle piastrine e ridurre dunque il rischio che si formino trombi in grado di ostruire la circolazione sanguigna. La doppia terapia antiaggregante ha l’effetto di fluidificare il sangue.
Da un lato è ciò che si chiede per evitare un secondo infarto del miocardio, ma se pochi mesi dopo aver messo uno stent il paziente deve sottoporsi a un intervento chirurgico - ginecologico, di chirurgia generale, otorinolaringoiatrico o, come nel suo caso, ortopedico - ci si è finora interrogati sull’opportunità di interrompere o meno la terapia antiaggregante. Il rischio considerato era quello di esporre la persona a una più probabile emorragia durante o dopo l’intervento.
Oggi sappiamo che è possibile gestire la terapia antiaggregante, senza interromperla, valutando il profilo dei rischi - emorragico e ischemico - sul singolo paziente. Al termine di uno studio appena concluso che ha coinvolto 19 ospedali italiani e più di mille persone, s’è osservato che, mantenendo la terapia antiaggregante, i tassi di eventi cardiovascolari avversi e mortalità ospedaliera erano inferiori al due per cento. Sulla base di queste evidenze sono state redatte delle linee guida in grado di ridurre i rischi e migliorare i profili di sicurezza operatoria di questi pazienti, che spesso convivono anche con altre malattie. Il consiglio, in linea generale, è di non interrompere la terapia antiaggregante.
È sempre indispensabile che il paziente consulti il proprio cardiologo prima di un intervento. In generale, in un caso come il suo, l’intervento di protesi del ginocchio è classificabile tra quelli a rischio di emorragia intra e postoperatoria e il rischio emorragico potrebbe superare quello di eventuale trombosi dello stent. Pertanto è consigliabile sospendere il secondo antiaggregante piastrinico almeno 5-7 giorni prima dell’intervento. Riguardo agli stent riassorbibili, a differenza di alcuni stent coronarici di ultima generazione, è ancora consigliabile proseguire la doppia terapia antiaggregante per dodici mesi dall’impianto, sebbene il rischio di trombosi dello stent si riduca con il passare dei mesi. In sostanza, nel caso in questione, sarebbe saggio posporre l’intervento a un anno dall’impianto dello stent.
Nel caso in cui ciò non fosse possibile, vanno bilanciati il rischio emorragico e quello trombotico. Se il primo supera il secondo, a sei mesi dall’impianto dello stent riassorbibile si può sospendere il secondo antiaggregante 5-7 giorni prima dell’intervento, riprendendolo nei giorni successivi e proseguendolo fino a un anno dall’impianto dello stent.