Da un'analisi su 55 milioni di utenti Facebook emerge che il debunking anti bufale è inutile e controproducente. Almeno con i complottisti
Il concetto potrebbe essere riassunto nel detto popolare "non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire". Tradotto nel linguaggio del web significa che fare attività di debunking - ovvero "smontare" una notizia bufala portando le prove dell'infondatezza della news - non serve ed è controproducente quando il destinatario è un utente che frequenta pagine e gruppi complottisti. Ad affermarlo è uno studio - l'ultimo della serie - pubblicato su PLOS ONE One da Walter Quattrociocchi dell'IMT di Lucca e da Fabiana Zollo dell'Università Ca' Foscari di Venezia.
PERCHE' NASCE UNA BUFALA?
Le bufale, soprattutto nel campo scientifico, sono sempre esistite. Ciò che è cambiato è la modalità di diffusione, sempre più capillare grazie al web e ai social network. Indipendentemente dalla tipologia, tutte queste false informazioni complottiste originano dalla difficoltà dell’uomo di spiegare in maniera razionale alcuni processi complessi che implicano analisi approfondite.
FARE DEBUNKING PUO' RAFFORZARE LE IDEE COMPLOTTISTE
Negli ultimi anni una delle figure che si sono andate a creare sul web è quella dei debunker, persone competenti in materia in grado di smontare "pezzo per pezzo" ogni bufala. Un lavoro importante che secondo lo studio appena pubblicato non ha però alcun impatto positivo per l'utente complottista, ovvero la persona che tende a credere che dietro alcuni fenomeni si nascondano trame, cospirazioni e complotti. Anzi, può addirittura essere un'arma a doppio taglio. I ricercatori hanno analizzato i post, i "like" e i commenti pubblicati su 83 pagine Facebook di carattere scientifico, 330 pagine "complottiste" e 66 pagine dedicate al debunking (con oltre 50mila post). Un'analisi che ha coinvolto il comportamento social di oltre 54 milioni di utenti seguiti per 4 anni.
COMPLOTTISTI E DEBUNKER: DUE UNIVERSI CHE NON SI PARLANO
I risultati ottenuti sono trancianti: lo studio ha confermato l’esistenza sul social network di due distinte comunità che non entrano in contatto tra loro e dialogano all’interno di una cassa di risonanza che non fa altro che rafforzare le loro tesi di partenza. Tradotto: «I post di debunking stimolano commenti negativi, non raggiungono il pubblico "complottista" oppure lo fanno reagire nel senso opposto a quello sperato» spiega la Zollo. Dunque per il complottista l’attività di debunking porta ad un rafforzamento della propria convinzione. Un risultato che conferma ancora una volta quanto riscontrato nei precedenti studi del gruppo italiano e che a fine 2015 aveva indotto Caitlin Dewey, giornalista del Wahsington Post, a chiudere la propria rubrica dedicata al debunking. Attenzione però a pensare che il debunking sia sempre inutile. Fortunatamente il web non è rappresentato solo da complottisti e anticomplottisti. Ciò che la ricerca non valuta è l'impatto che il debunking può avere in chi non ricade nella categoria di chi tende a credere al complotto. In questi casi la corretta informazione è tutto e uno degli obiettivi di Fondazione Umberto Veronesi è proprio quello di fare divulgazione scientifica offrendo ai lettori in cerca di informazioniu na bussola per orientarsi nella miriade di contenuti cotrastanti presenti sul web in fatto di salute.COME LIMITARE ALLORA LE FAKE NEWS?
Ma se le attività di debunking tendono a rafforzare l'idea complottista, quali strategie mettere in atto per arginare il fenomeno fake news? «La diffusione della disinformazione è dovuta alla polarizzazione degli utenti, ma anche alla crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni e all’incapacità di capire in modo corretto le informazioni. Questi aspetti sommati al meccanismo delle casse di risonanza e alla ricerca di conferme delle proprie tesi minano l'efficacia del debunking. Il debunking e l’attacco frontale ai complottisti non sono antidoti al propagarsi di fake news. Piuttosto, l'uso di un approccio più aperto e morbido, che promuova una cultura dell'umiltà con l’obiettivo di abbattere i muri e le barriere tra le tribù della rete, rappresenterebbe un primo passo per contrastare la diffusione della disinformazione e la sua persistenza online» conclude la Zollo.
Daniele Banfi
Giornalista professionista del Magazine di Fondazione Umberto Veronesi dal 2011. Laureato in Biologia presso l'Università Bicocca di Milano - con specializzazione in Genetica conseguita presso l'Università Diderot di Parigi - ha un master in Comunicazione della Scienza ottenuto presso l'Università La Sapienza di Roma. In questi anni ha seguito i principali congressi mondiali di medicina (ASCO, ESMO, EASL, AASLD, CROI, ESC, ADA, EASD, EHA). Tra le tante tematiche approfondite ha raccontato l’avvento dell’immunoterapia quale nuova modalità per la cura del cancro, la nascita dei nuovi antivirali contro il virus dell’epatite C, la rivoluzione dei trattamenti per l’ictus tramite la chirurgia endovascolare e la nascita delle nuove terapie a lunga durata d’azione per HIV. Dal 2020 ha inoltre contribuito al racconto della pandemia Covid-19 approfondendo in particolare l'iter che ha portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA. Collabora con diverse testate nazionali.