Pigrizia e partigianeria non bastano: le bufale corrono grazie ai comportamenti abitudinari dei "supercondivisori" da social media
Quanto contano i social media nella diffusione di bufale online? Che cosa aiuta il dilagare di false notizie e che cosa distingue gli “spacciatori seriali” di disinformazione? Se lo sono chiesti (fra i molti) anche gli autori di un recente articolo apparso sulla rivista PNAS. Un po’ a sorpresa, non è soltanto la scarsa capacità critica e non sono neppure soltanto i pregiudizi di parte. Tutto ciò conta, ma pesa piuttosto l’abitudine a condividere perché gratificati dal farlo e invitati dalla struttura delle piattaforme, indipendentemente dalla qualità del contenuto o dalle sue conseguenze.
La ricerca, condotta da un team delle università di Yale e della Southern California, ha coinvolto poco meno di 2.500 utenti di Facebook in una serie di studi sul loro comportamento di fronte a notizie vere e false. È emerso che in molti casi gli utenti condividevano contenuti per reazione automatica alle suggestioni della piattaforma, che invita alla condivisione e “premia” l’interazione con il meccanismo della popolarità a suon di like, qualunque sia il contenuto in questione.
Le persone più coinvolte in questo comportamento - chiamiamoli “condivisori abituali” – sembrano essere iperattivi sui social media ed è a loro che si deve una parte importante del flusso di bufale su questi canali: nello studio, infatti, il 30-40 per cento delle false informazioni è stato diffuso dal 15 per cento di condivisori più attivi. Ma sono venute fuori altre due caratteristiche interessanti.
La prima: a fronte di contenuti verificati (ad esempio: i tagli del presidente Trump alle agenzie governative responsabili della pandemia da coronavirus) e altri falsi (ad esempio l'utilità dell'olio di cocco contro Sars-CoV-2 e altri virus) i condivisori abituali nello studio sembravano cliccare sulle freccine e rilanciare tanto le notizie vere quanto quelle false, tanto quelle che differivano dal loro sistema di credenze e valori quanto quelle a loro più affini.
La seconda: potrebbe essere possibile orientare i comportamenti e frenare la lievitazione della disinformazione online: secondo i ricercatori americani «gli utenti possono essere incentivati a costruire abitudini di condivisione sensibili al valore della verità. Quindi ridurre la disinformazione si può, ma bisogna cambiare l’ambiente online che ne promuove e supporta la condivisione. I siti dei social media possono essere ristrutturati per costruire l’abitudine a condividere informazioni attendibili».
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Donatella Barus
Giornalista professionista, dirige dal 2014 il Magazine della Fondazione Umberto Veronesi. E’ laureata in Scienze della Comunicazione, ha un Master in comunicazione. Dal 2003 al 2010 ha lavorato alla realizzazione e redazione di Sportello cancro (Corriere della Sera e Fondazione Veronesi). Ha scritto insieme a Roberto Boffi il manuale “Spegnila!” (BUR Rizzoli), dedicato a chi vuole smettere di fumare.