Un'analisi dei due sistemi giudiziari per capire ciò che funziona, perchè gli Stati Uniti hanno la pena di morte e la giustizia italiana è troppo lenta. Parla Mario Calabresi
Un’analisi dei due sistemi giudiziari per capire ciò che funziona, perché gli Stati Uniti hanno la pena di morte e la giustizia italiana è troppo lenta. Parla Mario Calabresi
Mario Calabresi, 42 anni, è direttore de La Stampa. Dopo aver frequentato a Milano il Corso di laurea in storia e la Scuola di giornalismo, viene assunto all’ANSA nel 1996 come cronista parlamentare. Dall’Agenzia passa alla redazione politica del quotidiano la Repubblica e quindi a La Stampa. Per il quotidiano torinese, ha raccontato dagli Stati Uniti gli attentati dell’11 settembre 2001. Rientrato alla Repubblica nel 2002, assume l’incarico di caporedattore centrale. Dal 2007, sempre per lo stesso quotidiano, ritorna in America per diventare corrispondente da New York. Sempre nello stesso anno pubblica il libro autobiografi co “Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo” (Mondadori), dedicato alle vicende del padre Luigi assassinato dal terrorismo a Milano nel 1972. Tradotto anche in Francia, Germania, Stati Uniti e in uscita in Spagna. Nel 2009 pubblica, sempre per Mondadori “La fortuna non esiste” storie americane di persone che sono cadute e hanno trovato la forza di rialzarsi e di ricominciare. È del 2011 il suo ultimo libro “Cosa tiene accese le stelle”, storie di italiani che non hanno mai smesso di credere nel futuro. Profondo conoscitore del mondo a “stelle e strisce”, lo abbiamo intervistato per capire meglio le differenze tra la giustizia italiana e quella statunitense.
Direttore Calabresi, negli scorsi giorni la California ha respinto per via referendaria l'abolizione della pena di morte. Lei che conosce bene gli Stati Uniti che opinione si è fatto a riguardo? Perché una nazione come gli USA continua, con le dovute differenze tra stato e stato, ad applicarla?
Il dibattito sulla pena di morte negli Stati Uniti si basa molto sull’emotività e poco sulla razionalità. Il braccio della morte ha un costo economico notevole e non funge da deterrente per chi commette un reato. Ciononostante in America i due terzi della popolazione si dichiara favorevole alla pena capitale. Le ragioni sono di tipo culturale e sono ben radicate: gli Stati Uniti sino a 150 anni fa erano considerati “terre di frontiera” dove la giustizia era spesso “fai da te”. Oggi in America l’idea di giustizia si potrebbe riassumere con l’affermazione occhio per occhio, dente per dente. L’idea di fondo è che giustizia non sarà fatta finché lo stesso tipo di sofferenza provata non verrà inflitta al colpevole. Detto ciò è importante ricordare che gli Stati Uniti sono il paese delle seconde possibilità. Se tu hai sbagliato puoi ricominciare su tutto. Ma se sei recidivo sono severissimi e se togli la vita a qualcuno non esiste nessuna seconda possibilità.
Nemmeno con Obama?
Innanzitutto occorre ricordare che la pena di morte negli Stati Uniti è applicata stato per stato e quindi conta molto la cultura d’origine. Ma c’è un punto fondamentale del quale tenere conto: in America i procuratori e i giudici sono cariche elettive. In questo contesto c’è la “corsa” a fare vedere chi è più duro ed inflessibile. Dichiarare di essere contro la pena di morte viene interpretato come sintomo di debolezza. Lo stesso Barack Obama, proveniente dallo stato dell’Illinois dove non viene applicata la pena capitale, nella prima campagna elettorale per le presidenziali del 2008 non si è mai esposto. Messo però alle strette, di fronte ad una domanda sulla pena da comminare a chi si è macchiato di un delitto come l’assassinio di un bambino, ha risposto di essere favorevole.
Dunque non vedremo mai sparire la pena di morte…
Credo sarà un processo lunghissimo che non necessariamente andrà verso l’abolizione. Ci saranno delle fasi dove prevarrà il pensiero abolizionista e delle fasi, in conseguenza a qualche delitto particolarmente grave, dove verrà sostenuta.
Parlando invece di Italia, aleggia un sentimento di sfiducia sulla “certezza della pena” e sul sistema giudiziario giudicato farraginoso. Penso ad esempio alla storia di Lea Garofalo, vittima della ‘ndrangheta, e il rischio che il processo ripartisse da zero. Esiste questo problema? In questo modo non si rischia una giustizia “fai da te”?
Il sistema giustizia in Italia è al collasso. Abbiamo troppe leggi e un sistema con troppe possibilità interpretative. Non solo, sull’onda delle emozioni abbiamo voluto fare una legge nuova e diversa per normare qualsiasi vicenda e ciò ha generato un numero abnorme di processi. Se si aggiunge che tutto può andare in appello e in cassazione è facile capire che il nostro sistema è alla paralisi. Problema che si somma alla situazione del sovraffollamento delle carceri. Tutto ciò rischia di generare il fenomeno della giustizia “fai da te”, per fortuna ancora lontana dall’essere la norma per via delle nostre radici culturali.
Come uscire da questo stato di impasse?
Per cercare di recuperare la situazione, ovvero velocizzare i processi e migliorare la situazione delle carceri sovraffollate, bisognerebbe depenalizzare tutta una serie di reati. Emblematico il caso del carcere per i giornalisti. E’ giusto che siano responsabili di quel che scrivono e che, se necessario, vengano espulsi dalla professione, ma non si può pensare che siano reati penali. Ma oltre alla depenalizzazione un lavoro importante che occorre fare riguarda le pene alternative. Anche la costruzione di qualche nuova struttura carceraria non sarebbe male sicuramente. Tutto ciò aiuterebbe a snellire e velocizzare la giustizia.
Per concludere, se dovesse scegliere, cosa le piacerebbe importare in Italia del “sistema giustizia” statunitense e cosa consiglierebbe loro di adottare del nostro?
Il sistema americano è mancante di compassione e di comprensione della possibilità di cambiamento delle persone. C’è una legge terribile, quella del terzo strike, che commina pene altissime, quasi l’ergastolo, a persone che hanno compiuto tre volte un reato anche se non di sangue. Lo trovo inaccettabile. Quel che invece adotterei degli Stati Uniti è l’efficienza giudiziaria e la velocità. Penso a quanto ci abbiamo messo per il caso Parmalat e la condanna di Tanzi. Quando ero negli Stati Uniti ho avuto modo di seguire la vicenda Madoff: in un anno ho raccontato lo scoppio del caso, l’arresto, le indagini, il processo e la condanna.
Daniele Banfi