L’avvento di tomografia ottica e anticorpi monoclonali ha cambiato la gestione della malattia. Dall’ingegneria genetica una nuova possibilità terapeutica, con una molecola che mette in trappola il fattore di crescita endoteliale, responsabile dell’anomalia
Diventare completamente ciechi è la paura più grande di chi soffre di maculopatia degenerativa legata all’età, un deficit visivo che colpisce almeno un milione di italiani dopo i 50 anni.
Un timore giustificato: l’occhio fatica a riconoscere nitidamente i contorni degli oggetti, rendendo difficoltoso leggere o scrivere, e nel 20% dei casi, associati alla forma più grave detta «umida», ciò esordisce improvvisamente, anche in pochi giorni.
E’ bene fare un po’ di luce: la malattia non lascia completamente al buio i pazienti perchè consuma solo la parte centrale della retina, la macula, e rimane circoscritta anche a fronte di un peggioramento progressivo. Impatta quindi sulla visione centrale, ma lascia illesa quella paracentrale e laterale.
A rischiarare l’orizzonte di chi ne soffre è l’innovazione tecnologica, con fotografie tridimensionali e proteine di fusione, che rendono oggi più semplice la gestione della malattia e delle sue complicanze.
DIAGNOSI IN 3D
E’ la tomografia ottica ad alta definizione e tridimensionale (OTC), introdotta solo qualche anno fa, ad aver permesso agli specialisti di guardare più a fondo negli occhi dei pazienti, facendo la differenza nel percorso diagnostico. Consente di visualizzare tutti gli strati retininici individuando le più piccole anomalie, come le drusen, piccoli accumuli lipido-proteici dell’ordine del millesimo di millimetro che si annidano sotto alla retina nella macula «secca» - meno grave ma più diffusa - e gli edemi e i vasi sanguigni anomali caratteristici della forma «umida» o neovascolare.
In questo modo, si possono distinguere le due manifestazioni della patologia, definirne il grado di gravità e stabilire un piano terapeutico adeguato. A differenza di fluoroangiografia e angiografia, gli esami più comuni per valutare la salute dell’occhio, l’OTC non è invasivo e non richiede alcun mezzo di contrasto.
UN AIUTO DALL’ONCOLOGIA
Sempre più spesso capita di scoprire che due malattie con diversa manifestazione clinica condividano un meccanismo patologico, un difetto molecolare o che un farmaco possa dare benefici in entrambe.
Così è anche per la macula degenerativa neovascolare: nello strato più interno dell’occhio crescono nuovi vasi sanguigni che possono invadere la retina e sollevarla con un meccanismo del tutto simile alla neoangiogenesi tumorale, la via con cui un tumore si costruisce una rete vascolare per ricevere nutrimento e diffondersi.
Il punto in comune tra le due patologie è il VEGF, un fattore di crescita dell’endotelio che può essere usato come bersaglio nelle terapie di nuova generazione. L’idea si è accesa, qualche anno fa, quasi per caso, osservando il miglioramento della malattia oculare in una paziente sottoposta a trattamento con un anticorpo monoclonale per cancro al colon-retto.
Bevacizumab, questo il nome del primo farmaco sperimentato con iniezioni intravitreali, insieme a ranibizumab, un altro anticorpo monoclonale espressamente sviluppato per la degenerazione maculare, sono oggi i trattamenti d’elezione. «La scheda terapeutica prevede un’iniziale dose da carico seguita da controlli mensili ed eventuali trattamenti quando necessario.
Questo schema tuttavia rimane difficile da seguire sia per l’impegno per i pazienti sia per le strutture oculistiche», commenta Giovanni Staurenghi, Direttore della Clinica Oculistica presso l’Ospedale Luigi Sacco di Milano.
IL FUTURO NELLE PROTEINE DI FUSIONE
L’ingegneria genetica ha sviluppato una nuova molecola, da DNA-ricombinante, in grado di avvolgere il VEGF in modo ancora più selettivo, quasi fosse una trappola. L’aflibercept, questo il nome della proteina di fusione, blocca l’interruttore per la crescita dei vasi con una forza 100 volte superiore rispetto agli anticorpi monoclonali.
La molecola è già disponibile e rientra nella fascia C, i farmaci per cui è obbligatoria prescrizione medica e a carico del cittadino. «Ha una durata di azione più lunga, si traduce nella necessità di ricorrere a un minor numero di iniezioni intraoculari», spiega Alfonso Giovannini, Direttore della Clinica Oculistica dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti di Ancona.
Testato in numerosi studi, come il trial multicentrico View 2, che ha coinvolto 2419 pazienti in tutto il mondo compresa l’Italia, si è dimostrato sicuro ed efficace come gli anticorpi monoclonali già in uso, ma potrebbe semplificare la gestione dei pazienti, aumentando l’aderenza alla terapia.