Al via il convegno MINDset, una giornata interamente dedicata allo studio degli affascinanti meccanismi della mente, con un approccio multidisciplinare, grazie all'intervento di esperti provenienti da discipline eterogenee
Al via il convegno MINDset, una giornata interamente dedicata allo studio degli affascinanti meccanismi della mente, con un approccio multidisciplinare, grazie all'intervento di esperti provenienti da discipline eterogenee.
Lavora con i neonati Francesca Simion, docente di Psicologia dello sviluppo all’Università di Padova. Il più “vecchio” dei bambini che sottopone ai suoi test di ricercatrice ha 36 ore, il più “giovane” 24 ore. Un’età in cui si è incapaci a tutto, o quasi, nell’opinione corrente. Ma l’obiettivo inseguito dalla professoressa Simion è proprio individuare se nel cervello alla nascita esiste già la “mente sociale”, vale a dire la capacità di riconoscere gli altri esseri viventi, o se tale capacità si forma solo nel tempo con l’apprendimento.
Francesca Simion ne parlerà oggi, giovedì 1 dicembre nell’aula magna dell’Università di Milano al convegno “Mindset. La mente cresce, tu decidi, il mondo cambia”. «Il mio obiettivo sta nella prima parte del sottotitolo: la mente cresce. Per misurare la crescita occorre conoscere l’architettura iniziale, di partenza», spiega la docente. «Nell’adulto oggi sappiamo che esistono aree cerebrali specializzate per elaborare gli stimoli sociali, così come esistono aree per il linguaggio o per la musica. Vedendo un volto, in pochi millesimi di secondo un adulto stabilisce se conosce quella persona o no, se è maschio o se è femmina, se allegro e triste, giovane o vecchio… Questa capacità di riconoscimento non c’è solo per il volto, ma anche per come il soggetto si muove. E’ già dimostrato che sappiamo riconoscere il movimento biologico distinguendolo da quello meccanico o casuale. Quel certo modo di porre i piedi uno dopo l’altro, di tenere il busto fermo…».
Uscendo idealmente dal nido della clinica pediatrica di Padova, che è il suo terreno di ricerca, Francesca Simion richiama l’immagine di altri piccoli, i pulcini, per i quali sono già stati fatti questi esperimenti: messi davanti a dei puntini che si muovono secondo il movimento delle chiocce o altri polli e altri puntini che si spostano in modo meccanico, si vedono i pulcini indirizzarsi verso i punti dal movimento biologico.
«D’altro lato , al fine della sopravvivenza è fondamentale per un neonato, umano o pulcino che sia riconoscere gli altri esseri sociali».
La mamma prima di tutto?
«Sì, una delle capacità più incredibili dell’essere umano è il saper riconoscere già dopo 24-36 ore il volto della madre, distinguendolo da quello di un’altra madre, anche vista su un monitor. Quindi in assenza del suo odore o calore, per esempio. Oltre a questo si constata che i neonati sono affascinati dal movimento biologico: infatti un volto è sempre mobile, gli occhi si aprono e chiudono, la bocca anche, per parlare o sorridere…».
Ma i neonati possono vedere appena vengono al mondo? Un’opinione diffusa li fa ciechi nei primi tempi di vita.
«No, ci vedono. ma non sono capaci di mettere a fuoco. Se non alla distanza di 25-30 centimetri. La natura è davvero speciale: è esattamente la distanza tra il volto della madre e gli occhi del figlio attaccato al seno. Così, a quella stessa distanza, facciamo altri esperimenti: presentiamo al neonato una foto di un volto dritta e una a rovescio. La sua attenzione si fissa sulla prima. Se capovolgo ambedue le immagini, il suo sguardo vaga altrove».
Se ne deduce che la capacità di riconoscere i volti è innata?
«Si deduce che fin dalla nascita siamo indotti a preferire il sociale e che abbiamo una predisposizione a riconoscere i volti, che se poi parlano, è il massimo. Ma si tratta di predisposizioni appunto, non di capacità inscritte nel cervello. Ci sono delle funzioni cognitive già presenti alla nascita come il prestare attenzione, il saper memorizzare certe informazioni (per esempio, il volto della madre), poi la plasticità del cervello fa il resto sviluppando e strutturando le varie capacità attraverso l’apprendimento».
Può fare un esempio di una ricaduta pratica, se c’è, di queste ricerche?
«Ebbene, si parla molto di autismo, il cui deficit sta nel non prestare attenzione agli stimoli sociali. Ora, se riuscissimo a cogliere quali sono i primi segnali, potremmo intervenire prima che questo deficit si “stabilizzi” nelle strutture cerebrali».
Serena Zoli