Le strategie di sostenibilità delle imprese, le aspettative dei consumatori, le partnership efficaci tra profit e non profit. L'editoriale di Paolo Anselmi
di Prof. Paolo Anselmi, Docente di Marketing Sociale presso l’Università Cattolica di Milano, Presidente di Walden Lab – Laboratorio di Ricerca Sociale
Nel corso degli ultimi due decenni è regolarmente cresciuto il numero di imprese impegnate in un percorso di responsabilità sociale e di sostenibilità ambientale. Ma in questi anni non si è verificata solo una crescita quantitativa. Le indagini più recenti svolte da Fondazione Sodalitas testimoniano la crescente rilevanza che la responsabilità sociale ha assunto negli ultimi anni per le imprese che la praticano. È cresciuto il coinvolgimento diretto dei vertici aziendali su questi temi ed è aumentata la consapevolezza dei dipendenti. E soprattutto la CSR/sostenibilità è divenuta sempre più “trasversale” ovvero al potenziamento della struttura dedicata si è accompagnato il progressivo radicamento dei temi di CSR nell’operatività delle diverse funzioni aziendali: dagli acquisti alle risorse umane, dal marketing alla comunicazione. Infine si è diffusa la pratica del monitoraggio dei risultati ottenuti. I report di sostenibilità sono divenuti lo strumento primario di definizione degli obiettivi e di misurazione delle performance. Uno strumento essenziale per evitare il rischio di operazioni di pura immagine (greenwashing) a cui non corrisponde un’autentica revisione dei modi di operare dell’impresa. In sintesi possiamo dire che la CSR è divenuta in questi anni sempre più “strategica”. Da una parte elemento costitutivo dell’identità e della reputazione di un’impresa, dall’altra paradigma di riferimento per la progettazione del futuro. È un processo ancora in corso ma si può con sufficiente sicurezza affermare che si tratta di un percorso non reversibile destinato a consolidarsi ulteriormente nel prossimo futuro.
Quali sono i fattori che hanno contribuito a questo “cambio di paradigma” per cui le imprese sono passate da una visione in cui si concepivano come attori puramente economici orientati alla massimizzazione del profitto per i propri azionisti ad una visione in cui riconoscono la loro responsabilità verso una pluralità di stakeholder ivi inclusi l’ambiente naturale, la società nel suo insieme e le future generazioni? Sono soprattutto tre i fattori che hanno sinergicamente favorito questa evoluzione. Innanzitutto la consapevolezza – maturata dapprima in ambito scientifico e accademico ma ben presto condivisa anche dalla business community – della gravità delle sfide che la nostra società si trova oggi ad affrontare e che vede le imprese come attori decisivi senza le quali non è pensabile progettare e realizzare un modello di sviluppo in grado di garantire equità, inclusione e rispetto per l’ambiente. In secondo luogo le decise prese di posizione delle principali agenzie internazionali. Basti pensare all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, agli accordi di Parigi sul clima (COP 21) e più recentemente al Green New Deal dell’Unione Europea. Infine ha molto pesato – e ancor più conterà in futuro - la domanda che i cittadini-consumatori rivolgono oggi alle imprese viste sempre più come attori con una rilevanza sociale oltre che economica e dunque con la responsabilità non solo di “rispettare le leggi e pagare le tasse” ma di contribuire in modo attivo al miglioramento delle condizioni della società e dell’ambiente in cui operano.
Aldilà dell’apprezzamento per una visione che si propone di integrare valori etici e sociali nelle strategie dell’impresa, che cosa chiedono oggi “concretamente” i consumatori alle imprese responsabili? Le ricerche ci dicono che sono tre le aspettative più condivise:
- La prima riguarda la sostenibilità dei prodotti e dei processi produttivi. Si chiedono innanzitutto prodotti e processi rispettosi della salute delle persone e degli equilibri ambientali. Dunque riduzione delle emissioni, riduzione al minimo o totale esclusione della chimica dai prodotti alimentari e dai cosmetici, “naturalità” dei prodotti con i quali si viene direttamente a contatto (capi di abbigliamento, oggetti di arredo…), gestione responsabile degli scarti, in particolari di quelli più nocivi.
- In secondo luogo si è molto rafforzata negli ultimi tempi la domanda di interventi a favore della comunità e del territorio di appartenenza. Le imprese sono percepite come corresponsabili della qualità della vita del territorio in cui operano e dunque sono sempre molto apprezzate le iniziative mirate a migliorare la qualità ambientale, sociale e culturale del territorio di prossimità (il quartiere, la città, la regione…).
- Infine è molto forte l’attesa di un impegno a favore del “bene comune”. In questo rientrano le azioni e le iniziative orientate a contrastare le emergenze - si pensi a quanto molte imprese hanno con generosità donato nel corso dell’ultimo anno di emergenza sanitaria a favore di ospedali, Croce Rossa, protezione civile - ma anche un impegno di più ampio respiro a favore di obiettivi percepiti come importanti per l’intera comunità nazionale. Sono tre oggi quelli riconosciuti come prioritari: la protezione del patrimonio naturale, la cura del patrimonio culturale e artistico e il sostegno alla ricerca medico-scientifica. Rispetto all’ambiente e al patrimonio culturale la domanda rivolta alle imprese è sempre più una domanda che va oltre il semplice rispetto e la cura dei beni e che sempre più “pretende” un impegno per il recupero e la rigenerazione di quanto degradato dall’incuria umana. Della ricerca medico-scientifica è sempre più percepito il valore di risorsa insostituibile per la prevenzione e la cura di quelle patologie che mettono a rischio la nostra vita e la nostra salute.
È del tutto evidente che in questi tre ambiti le imprese non hanno modo di impegnarsi in prima persona ma devono necessariamente agire realizzando partnership con organizzazioni non profit che hanno le competenze e le risorse per un impegno diretto ed efficace. Può dunque essere utile prendere in considerazione gli elementi che più contribuiscono alla buona riuscita di una partnership ovvero alla sua credibilità e alla generazione di ricadute positive per gli attori coinvolti.
- La prima condizione di una buona partnership è l’allineamento dell’impegno assunto con il resto dell’agire dell’impresa. Una partnership non può mai essere utilizzata come “compensazione” di comportamenti poco virtuosi. Un’azienda inquinante non può pensare di salvarsi la coscienza (e la reputazione) grazie ad una partnership con WWF. Così come un’azienda produttrice di tabacco non può sperare di “compensare” le patologie che contribuisce a generare sostenendo con generosità Fondazione Umberto Veronesi.
- La seconda condizione di una buona partnership è la continuità. Per essere ritenuta davvero credibile una partnership deve avere una certa durata temporale, non può essere intesa come operazione estemporanea o addirittura “one shot”. La durata non solo rafforza la credibilità dell’iniziativa ma favorisce la progressiva integrazione dell’impegno assunto nel sistema di valori dell’impresa.
- Il terzo fattore di buona partnership è la coerenza. Una coerenza che può riguardare diverse componenti del posizionamento dell’impresa. Innanzitutto la sua identità e i suoi valori. Un’impresa di promozione turistica impegnata nella valorizzazione delle bellezze del nostro Paese sarà particolarmente credibile nel sostegno che darà al FAI o a Italia Nostra. Un secondo elemento di coerenza può essere il target. Un’impresa che produce prodotti destinati ad un target femminile (es. cosmetici) sarà particolarmente apprezzata dal proprio target se sosterrà la ricerca e la prevenzione contro i tumori femminili. Infine un terzo elemento di possibile coerenza è la prossimità. Le ricerche indicano che le iniziative svolte in partnership sono particolarmente apprezzate quando riguardano il territorio di appartenenza dove sono radicate e operano l’impresa e l’organizzazione non profit.
Per concludere vorrei portare l’attenzione su due aspetti che contribuiscono a rendere le partnership tra profit e non profit particolarmente efficaci ma che vengono spesso trascurati. Il primo è l’inserimento nel progetto di un impegno volto alla sensibilizzazione e all’educazione dei cittadini sui temi oggetto di partnership: il rispetto per l’ambiente, la cura per il patrimonio artistico, la prevenzione di patologie attraverso stili di vita più sani. In questo modo l’iniziativa può divenire l’occasione per una call to action positiva ed anche per far conoscere l’impegno dell’ente non profit e sollecitare il sostegno di potenziali donatori. Infine un ultimo richiamo alla rilevanza della comunicazione. Numerose indagini indicano che il principale punto di debolezza di molte buone partnership tra imprese e associazioni non profit è rappresentato dalla loro scarsa notorietà e visibilità. Senza un’efficace strategia di comunicazione l’ente non profit non ha la possibilità di diffondere il proprio messaggio e di ampliare il proprio parco donatori e l’impresa non trae dalla partnership il vantaggio che potrebbe in termini di reputazione e credibilità. Appare dunque sempre essenziale definire un efficace piano di comunicazione che impieghi con creatività le risorse a disposizione anche quando, come spesso capita, sono di dimensione contenuta e utilizzi in modo selettivo gli strumenti del marketing relazionale, in particolare le relazioni pubbliche, le media relations e il Web 2.0 che è ormai divenuto luogo primario di scambio e di condivisione, in particolare per i pubblici più giovani e più dotati di risorse culturali.