Farsi le giuste domande per trovare le giuste risposte anche in tempo di pandemia

Etica d’impresa, responsabilità sociale, corporate sustainability

di Mauro Sciarelli, Professore Ordinario di Economia e gestione delle imprese presso l’Università di Napoli Federico II, coordinatore del Corso di Studi in Economia Aziendale, insegna Governo ed etica d’impresa e coordina il Laboratorio didattico LIFE (Laboratorio di Imprenditorialità e finanza etica). Coautore del volume “Il Governo etico dell’impresa” Wolters Kluwer, 2018.

Responsabilità sociale? In un incontro avuto con gli studenti del Corso di Governo ed etica d’impresa sui temi dell’etica e del management, il compianto filosofo Aldo Masullo ci offriva una illuminante lettura del termine responsabilità, partendo da una sua analisi etimologica. Responsabilità, diceva, è la capacità di fornire risposte. In questo senso la responsabilità sociale diventa la capacità delle imprese, e delle organizzazioni in genere, di fornire risposte alle istanze della società, o per essere più precisi dei portatori d’interesse.  Come sottolineato da Caselli è l’etica che conferisce senso alla responsabilità, costituendone il fondamento ultimo. Se l’etica è definita come la scienza della condotta, l’etica nell’impresa è “l’applicazione di principi, valori, orientamenti volti a illuminare e guidare – in termini di buono e di giusto – la vita e l’operare degli uomini e quindi degli imprenditori e dei manager” (Caselli, 2020).

Ma in che modo l’etica si introduce nel governo delle imprese? Il processo decisorio manageriale viene descritto solitamente come un percorso sequenziale che parte dall’identificazione e definizione di un problema, per poi individuare le alternative di soluzioni e quindi procedere alla scelta ed alla sua conseguente implementazione. Un approccio etico e responsabile non solo si pone l’obiettivo di rispondere alle istanze che provengono dai diversi interlocutori sociali (gli stakeholder), ma parte già dalla percezione ed identificazione di tali bisogni, aspetto che richiede la diffusione di una sensibilità etica e sociale nella cultura di impresa e nell’approccio ai processi decisori. In questo senso, per dare le opportune risposte, bisogna porsi le domande più corrette.

Quale è la funzione dell’impresa e quali i fini che muovono le scelte ed i comportamenti imprenditoriali? Responsabilità economica e sociale sono compatibili? Quali sono gli strumenti da adottare e con quali criticità? In che modo dare conto del valore creato per i diversi stakeholder? Come si misura la performance? In che modo la pandemia impatta su questi quesiti?

"Può l'impresa darsi dei fini che non siano identificabili esclusivamente negli indici dei profitti? " Il celebre discorso di Adriano Olivetti, richiamato indirettamente anche in altri contributi pubblicati su questa newsletter, poneva allora un quesito che ormai sembra fortunatamente avere trovato una generale e condivisa risposta nella funzione sociale e nella prospettiva di creazione di valore allargato secondo una prospettiva multistakeholder.

 

L’impresa non crea valore solo per gli azionisti, ma per i diversi portatori di interesse, che, secondo un’interpretazione allargata, sono tutti coloro che vengono influenzati da decisioni ed azioni di chi governa le imprese e che, a loro volta, possono influenzarne comportamenti e risultati. Il concetto di valore si espande da una matrice unicamente economica, a ricomprendere l’impatto sociale ed ambientale che l’impresa è in grado di produrre sulla comunità, sul territorio e sulla società più in generale. L’impresa come un “cittadino” assume diritti e doveri verso la collettività, da cui trae risorse, competenze, beni e servizi comuni e verso cui assume un obbligo “morale” di diventare fattore di sviluppo economico e sociale, nel rispetto dell’ambiente e delle sue risorse, a difesa degli interessi delle generazioni presenti e future. Questi concetti trovano sempre più spazio, non solo in documenti politico-istituzionali o accademici, ma anche nelle parole di imprenditori e manager.

 

Tra i tanti contributi da cui è possibile desumere questa diffusa sensibilità alla responsabilità sociale ed all’etica d’impresa nella prospettiva della sostenibilità, come il tanto citato documento del Business Roundtable o le famose indicazioni delle lettere di Larry Fink di Blackrock agli investitori, una chiave di lettura particolarmente efficace è offerta da quanto inserito nella Carta di Firenze, presentata nel settembre scorso in occasione del Festival dell’Economia Civile. “L’impresa, capace di coniugare creazione di valore economico e di senso, produttività e sostenibilità sociale e ambientale, si fonda sulle relazioni tra persone e rappresenta in quanto tale uno dei principali e influenti luoghi di formazione del carattere e della personalità umana. Frutto di ispirazione e di creatività, di capacità di leggere i nuovi bisogni e i nuovi spazi di mercato, di nuove competenze, di buone relazioni con il contesto territoriale e con la comunità. È un’impresa esperta non solo in competenze tecniche ma anche in capacità relazionali, dove reciprocità, gratuità e fiducia sanno generare relazioni positive e un sovrappiù sia economico che sociale”.

 

Centralità dell’uomo e del capitale umano, creazione di valore nella prospettiva multidimensionale della sostenibilità, legame con il territorio e con la comunità locale, valori etici alla base del sistema relazionale sono i cardini di questo modello di impresa, che si va diffondendo e che senza dubbio trovano riscontro proprio nell’idea di impresa concepita e messa in opera da Adriano Olivetti.

La responsabilità sociale non è un’alternativa alla responsabilità economica. Anzi, come illustrato nel celebre contributo di Carroll, la responsabilità economica ne costituisce il presupposto. L’imprenditore o il manager che mettano in essere condotte rischiose per la sopravvivenza dell’impresa, ne sarebbero socialmente responsabili. Partendo da questo presupposto, poi, e risalendo i gradini di questa scala, il rispetto della legalità, prima, la responsabilità verso gli stakeholder, poi, ed infine le iniziative filantropiche, completano il quadro di questo concetto complesso ed integrato di Corporate Social Responsibility.  Il rispetto dei principi di base dell’equilibrio economico, data per scontata l’applicazione del sistema di norme vigenti, è la base su cui impiantare scelte e comportamenti che vadano incontro agli interessi dei diversi stakeholder e, al culmine della piramide, della società, tramite interventi di carattere filantropico. In passato, non era frequente in ambito manageriale riscontrare questa visione illuminata della responsabilità sociale. Si confondeva la filantropia con la responsabilità sociale. Ma la filantropia è solo una delle componenti della responsabilità sociale, che - va sottolineato ancora una volta– affonda le radici nel presupposto della responsabilità economica. Questo modello interpretativo, sul quale ormai si riscontra una generalizzata consapevolezza sia tra gli studiosi, che tra chi è al governo delle imprese, si dimostra coerente sia con l’impianto dei principali strumenti applicativi della CSR, che con una definizione più efficace e completa della performance d’impresa.  

 

Se la finalità condivisa delle organizzazioni d’impresa è la creazione di valore (economico, sociale ed ambientale) nel lungo periodo, definire ed integrare le metriche di analisi delle diverse dimensioni diviene questione centrale per la misurazione della performance. La triple-bottom line è da anni il modello di riferimento principale, che se inserito in una prospettiva di lungo termine ed intergenerazionale, riesce a cogliere gli elementi di fondo dell’orientamento alla sostenibilità nelle tre diverse dimensioni integrate. I tanti studi concentrati sul rapporto tra Corporate Social Performance e Corporate Financial Performance sempre più spesso mostrano evidenze empiriche di una correlazione diretta, soprattutto se misurata nel lungo periodo. Se i metodi di analisi della performance economico-finanziaria sono ormai consolidati, gli sforzi degli analisti si sono concentrati, ed il processo è tutt’ora in atto, sulla misurazione delle componenti socio-ambientali. Il cosiddetto paradigma ESG (environmental, social, governance) diviene riferimento sempre più diffuso tra gli organi di governo per supportare le scelte manageriali strategiche di sviluppo sostenibile. Nei mercati finanziari organizzazioni specializzate come le agenzie di rating ESG (Sustainalytics, Standard Ethics, Kld, solo per citarne alcune) misurano questi aspetti per orientare le scelte di investimento e l’allocazione dei capitali. Molti sforzi si stanno concentrando sulle metodologie applicative di misurazione di questi fattori, ma ancora non è facile trovare degli standard generalmente riconosciuti. Le tre dimensioni ESG devono analizzare i risultati raggiunti, o definire gli obiettivi programmatici, in termini di impatti ambientali (risparmio energetico, smaltimento e riciclo rifiuti, riduzione di emissioni, consumi idrici, economia circolare e così via), sociali (tutela dei consumatori, sicurezza dei prodotti e dei dati, supporto allo sviluppo del territorio, ecc.) e di governance (parità di genere e tutela delle minoranze negli organi, efficacia dei codici di condotta, trasparenza e comunicazione esterna, ecc.). Quello che emerge, tuttavia, dallo studio dei documenti di comunicazione delle aziende, è una tendenziale concentrazione soprattutto sugli aspetti relativi all’impatto ambientale. Manager ed imprenditori si sono dimostrati in questi anni molto sensibili alla dimensione ecologica, certamente anche perché può generare risparmio di costi o favorire l’accesso a forme di sostegno finanziario pubblico. Nella logica della sostenibilità, misurata dal paradigma ESG, va invece sottolineato quanto sia importante dedicare adeguata attenzione alle altre due dimensioni. Ciò ha dimostrato nel lungo periodo di favorire la creazione di valore apprezzato dai mercati in termini di affidabilità, immagine e reputazione. Un tema delicato, in questa ottica, è l’adozione di codici etici che siano correttamente strutturati, comunicati ed applicati. Il codice etico non serve solo a illustrare i valori etici di riferimento dell’imprenditore o degli organi di governo dell’impresa. Non deve essere soltanto la soluzione più semplice di compliance al DLgs 231. Si tratta di uno strumento che deve favorire e regolare l’applicazione di principi etici in quelle relazioni interne ed esterne, che possono presentare fattori di delicatezza e rischio. È necessario sia redatto attraverso un coinvolgimento allargato, che sia comunicato e accettato da lavoratori e spesso dalla rete di fornitura, definendo precise procedure applicative, che tutelino l’anonimato di chi segnala (Whistleblowing). Sono imprescindibili organi indipendenti di valutazione (comitati etici) ed opportuni sistemi sanzionatori. In molti casi, invece, si tratta di documenti formalmente ineccepibili, ma sul piano operativo molto deludenti. Il codice etico, invece, costituisce uno dei principali strumenti applicativi della responsabilità sociale d’impresa.

 

Per una condotta responsabile e sostenibile è necessario un processo di rendicontazione, che “renda conto in una prospettiva sia consuntiva sia programmatica della missione e delle strategie formulate, delle attività realizzate, dei risultati prodotti e degli effetti determinati, considerando congiuntamente l’insieme degli stakeholder dell’organizzazione e la pluralità (economica, sociale e ambientale) delle dimensioni” (Colombo, Stitz, 2003). In tema di rendicontazione socio-ambientale o, come viene oggi più comunemente etichettata, disclosure non finanziaria, molti avanzamenti sono stati fatti e sono evidenti. La presentazione di bilanci sociali o rapporti di sostenibilità si è diffusa nel mondo delle imprese, così come anche delle pubbliche amministrazioni e del terzo settore. Linee guida, standard, modelli di rappresentazione sempre più dettagliati e raffinati vengono proposti, e continuamente aggiornati, da organismi internazionali (GRI, AA1000, IRRS) ed anche nazionali (GBS), che cercano di normalizzare ed unificare contenuti e processi di rendicontazione. Inizialmente la spinta ad allargare il contenuto della comunicazione sociale è stata frutto di iniziativa volontaria delle organizzazioni più sensibili ai temi della responsabilità sociale e della sostenibilità. Successivamente, un enorme impulso a questa diffusione è stato dato da documenti di indirizzo pubblicati da organismi internazionali (Green Book, ecc.), che in alcuni casi si sono poi tradotti in provvedimenti normativi. Dal 2017 nel nostro Paese il D.Lgs. 254/2016 ha reso obbligatoria la “dichiarazione non finanziaria” (DNF) per gli “enti di interesse pubblico” di certe dimensioni (oltre 500 dipendenti, 20 milioni di euro di attivo patrimoniale, oltre 40 milioni di euro di fatturato). La norma definisce requisiti, obiettivi e contenuti minimi, lasciando poi liberi di adottare la forma di disclosure ritenuta più opportuna.  Il rapporto che Consob presenta sulla dichiarazione non finanziaria delle società quotate in Italia ha evidenziato, per le 151 società analizzate nel 2019, un quadro confortante sui contenuti e sul processo di rendicontazione, ma anche aspetti delicati da migliorare, soprattutto sotto il profilo dello stakeholder engagement e dell’impatto sulla governance aziendale. L’individuazione delle tematiche “non finanziarie” rilevanti per il management e per gli stakeholder, che passa attraverso la cosiddetta analisi di materialità, nella maggioranza dei casi viene correttamente illustrata con un’apposita matrice, ma mentre sono stati coinvolti quasi sempre gli stakeholder interni, molto meno frequente è il coinvolgimento degli stakeholder esterni, la cui opinione spesso viene valutata indirettamente dagli organi interni. Solo in una minoranza dei casi l’analisi di materialità è stata sottoposta all’approvazione del Consiglio di amministrazione. L’integrazione di fattori ESG nel governo delle imprese tende a crescere. Un terzo delle imprese dichiara di avere organizzato programmi di formazione per dirigenti ed impiegati aventi ad oggetto tematiche non finanziarie, in prevalenza temi ambientali e legati all’innovazione. A fine 2018, 33 società italiane con azioni quotate hanno collegato il sistema di incentivazione degli amministratori delegati ai parametri ESG, la cui adozione nelle linee guida per il rinnovo del board è in netto incremento. Tuttavia, come rilevato anche dall’Osservatorio sulla DNF nel report 2019, alcuni aspetti critici riguardano la limitata adozione da parte delle aziende di un approccio strategico alla sostenibilità; infatti, nella maggioranza dei casi, manca una definizione degli impegni presi dalle aziende in materia di sostenibilità, o l’indicazione di specifici programmi legati all'integrazione di criteri non finanziari nei processi decisionali e nella gestione strategica dell’impresa. Da circa il 50% delle DNF emerge, comunque, una crescente focalizzazione sugli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs) di Agenda 2030.

 

Cosa cambia, rispetto alle più diffuse pratiche manageriali e alle impostazioni condivise in dottrina, in presenza di una crisi economica come quella prodotta dal virus? Fino a che punto rimangono valide le compatibilità tra finalità economiche, sociali e ambientali?

Una crisi è sempre un’opportunità per una trasformazione. In questo caso il cambiamento verso la corporate sustainability è un percorso avviato da tempo, che i mercati di consumo e finanziari dimostrano di apprezzare sempre di più, e che produce benefici nelle relazioni interne all’impresa, alimentando clima di fiducia, senso di appartenenza e motivazione. La ripresa dalla crisi pandemica costituisce una preziosa occasione per accelerare ulteriormente nella direzione della sostenibilità, puntando sull’integrazione di etica ed economia e su comportamenti responsabili delle nostre imprese. Innovazione e sostenibilità sono le leve per ripartire ed i programmi di politica economica internazionale puntano su questi fattori. Va, tuttavia, tenuto ben chiaro che, se parliamo di sostenibilità, non possiamo scindere la dimensione economica, da quella ambientale e sociale. Sono tre pilastri integrati e non scindibili. L’innovazione, inoltre, non deve guardare solo a prodotti e processi, ma anche all’organizzazione ed ai modelli di governo delle imprese. Uno sforzo ulteriore deve essere indirizzato all’applicazione di efficaci strumenti di comunicazione e rendicontazione della sostenibilità, che rispondano all’esigenza di stakeholder engagement nella prospettiva di una strategia aziendale pienamente integrata con i temi ESG, rilevanti per la generazione di valore nel lungo periodo.

 

Riferimenti bibliografici:

Caselli L. (2020), L’etica non è un di più, editoriale al n.3 della rivista Impresa Progetto.

Carroll A.B. (1991),The pyramid of corporate social responsibility. Toward the moral management of organizational stakeholders, Business horizons.

Colombo G.M., Sitz G. (2003), Il bilancio sociale delle organizzazioni non profit, Ipsoa.

Carta di Firenze, festivalnazionaleeconomiacivile.it

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